Avorio
di Filippo Cerri
illustrazione di Michele Rota
I
L’Archimandrita ci ha proibito di oltrepassare i confini che segnano l’inizio del Grangelo: per alcuni è terreno sacro e protetto. Lo ha detto con voce di capo, poi lo ha ripetuto con sussurro d’amico. Mio padre gli ha risposto con un silenzio svuotato di ogni cosa, lasciando all’Archimandrita il compito di riempirlo con quello che voleva, disprezzo o incoscienza che fosse.
Dopo circa tre settimane, io e mio padre siamo giunti all’orlo estremo prima del Grangelo. Abbiamo passato tre giorni a costruirci il riparo, sotto i grandi alberi, a poche centinaia di metri dal suolo ghiacciato, costantemente sollecitati da un freddo che ci entrava nelle ossa e ci inchiodava a un pensiero fisso, quello del ricco bottino nascosto nel ventre della terra, fermandoci solo quando ossa e carne gridavano, stremati all’unisono con lo spirito.
Poi ogni mattina, due ore prima dell’alba, ci siamo spinti sulla piana del Grangelo, lastra sterminata di ghiaccio a cui l’occhio non sa dare limiti. Fino a notte abbiamo scavato, contrastati da un vento che ci lanciava addosso lame affilate e taglienti nonostante gli abiti e le pelli, mantenendo entrambi, chi per riverenza, chi per costituzione, la bocca chiusa.
Per certi uomini la parola ha genesi di strazio. Una fatica indicibile anche solo arrivare a dire ciò che per molti è normale come il respirare. Di mio padre, Marouk, colleziono nella mente un mosaico di cose non dette. Ha allevato me e i miei fratelli nel sacro vincolo del muto comprenderci, non una parola o un gesto sprecati. Sono notti, ma direi meglio anni, che cerco la chiave per questo mistero d’uomo. Forse per comprenderlo meglio, per arrivare un po’ più vicino a capire chi è, ho affrontato questo massacro.
Massacro, dico, del corpo e dello spirito e volendo lo ripeterei, anche se qui non c’è orecchio che mi si offra ai lamenti. Il pericolo tutto intorno è di grossa grana. Conto prima di addormentarmi le possibilità di lasciarci la vita: il freddo, la fame, un incidente con l’elevatore. Potrebbero arrestarci i Cavalieri di pattuglia, ucciderci sul posto o portarci davanti ai loro tribunali, per essere giustiziati con calma. Potremmo incontrare i gigalupi e sperimentare sulla nostra pelle quello che Haram il Monco racconta ogni notte di luna piena, mostrando il corpo sfuggito alle loro fauci come un’eccezione che vale quanto un miracolo.
Ma l’avorio delle ossa delle Creature che dormono sotto il ghiaccio del Grangelo si vende caro ai mercanti. Non siamo i primi, non saremo gli ultimi a tentare l’impresa. Noi zingari Ghizmu siamo sempre stati portati per questo tipo di mestieri. Fino a oggi è grazie a tale propensione che siamo sopravvissuti a tribù anche più numerose di noi. L’Archimandrita, allo scadere del quattordicesimo anno, ha parlato bene e chiaro:
«C’è nel tuo sangue il grido di ogni membro passato, presente e futuro dei Ghizmu, in ogni tua azione c’è un’eco delle loro, ed è vero anche il contrario».
Siamo qui per un motivo. Troveremo le ossa e l’avorio sotto il Grangelo, anche l’Archimandrita sarà contento e perdonerà la nostra imprudenza. Lo facciamo per noi, per la salvezza della nostra stirpe.
II
Nei pochissimi secondi in cui il respiro reclama un attimo di pausa dallo sforzo, quando risaliamo dal pozzo, getto il più possibile lo sguardo all’orizzonte. Il Grangelo è sterminato. Ma la meraviglia più segreta è quella che abbiamo sotto i piedi. Nascoste da metri di durissimo ghiaccio, le Creature riposano immerse nel loro sonno millenario. Qualche notte fa le ho sognate, mi sono apparse come se fossero ancora padrone della Terra, enormi e inconsapevoli, gigantesche figlie di giganti dissolti nel tempo. E dal tempo solidificato, che altro non è che ghiaccio, sono state sepolte fino a che le onde di calore degli anni passati non le hanno fatte avvicinare a noi, che siamo qui per loro, per le loro ricche ossa.
Qualche notte fa abbiamo avuto visite inaspettate. Annunciati da un lontano sfuriare di cavalli, abbiamo avvistato due Cavalieri di pattuglia all’orizzonte. Il Grangelo è zona sacra e noi stiamo offendendo gli dei. Dovessero trovarci proprio ora, sarebbe il massimo del peggio. Mio padre ha fermato l’elevatore e il meccanismo del pozzo, poi ha fatto un cenno inequivocabile, un indice verticale sulle labbra. Abbiamo smesso di lavorare e ci siamo nascosti. Due ore dopo siamo tornati al lavoro, con maggiore sforzo per recuperare il tempo perso.
Le notti in cui cerchiamo di riposare dopo la fatica sono dense come miele scuro. Il buio non riesce a dissipare i miei pensieri, non li contrasta, in qualche modo li ascolta, dà loro spazio e concretezza. E nel teatro d’ombra che mi offre la tenda, in quelle poche ore di sonno strappato alla tenebra immagino un futuro diverso, il ricco bottino, la felicità dei Ghizmu, il sorriso soddisfatto di mio padre.
È troppo che siamo stanchi di danzare ogni sera al ritmo dei nostri stomaci vuoti, di vederci morire, di affrontare i nostri stessi sguardi rassegnati al pezzo di specchio appeso al centro della tenda al mattino. Quando mio padre ha deciso, io gli sono andato dietro. Glielo dovevo come figlio e come zingaro. Ma ogni giorno in più che non riusciamo a trovare le Creature, è uno spillo che affonda nel cuore di entrambi. Mio padre si è preparato mesi, indebitandosi per recuperare il materiale necessario allo scavo e adesso siamo qui, con un imperativo e un dovere. E il suo silenzio contrito svela un’unica via d’uscita: farcela o morire.
III
Quindi è successo. Questa mattina, ecco il grido miracoloso. Mio padre è risalito con l’elevatore, tenendo in mano qualcosa. L’altra mano indicava il buco nel ghiaccio da cui era uscito. Ho guardato in fondo alla bocca che il nostro lavoro aveva creato e in cui mi sembrava di non vedere altro che buio. Poi l’occhio si è abituato e ha visto, o ha immaginato di vedere, una massa incongrua, un agglomerato denso d’oscurità da cui grossi tronchi luminescenti parevano brillare nel buio. Le bestie d’avorio erano là sotto e ci stavano aspettando.
Mio padre mi ha passato l’oggetto che aveva in mano, una zanna strappata alla Creatura. L’ho rigirata tra le mani, non potevo credere né all’occhio né al tatto. Quel pezzo d’osso millenario, incastonato fino a poco tempo prima in un essere antico come il sole, aveva camminato sulla terra primordiale e ora stava nella mia mano. Ero pronto a dire a mio padre qualcosa, ma quando l’ho guardato, un’ombra gli oscurava il viso. Stava fissando un punto lontano che dall’essere una vibrazione indecisa, è diventato presto il contorno di due Cavalieri in sella, spediti verso di noi.
Non un gesto di troppo ma un solo imperativo: corri.
Ho ripetuto alle gambe lo stesso comando secco e immediato. Dopo qualche centinaio di metri ho voltato lo sguardo. Mio padre si è gettato contro i Cavalieri con un impeto che solo il triplice sventagliare di una mitraglia ha fermato. Non ho sentito il corpo cadere, essendomi spinto al limite che fiato e nervi mi hanno concesso. Ho continuato a correre. Sono state ore di fuga matta e disperata, inseguito dal boato di altri spari, in cui il cuore ha pompato sangue ininterrottamente fino a che non sono ricomparse le chiome degli alberi. Lì, in un avvallamento del terreno, sono sprofondato, mi sono tolto gli abiti antigelo. Ho sentito un calore improvviso nel fianco di cui ho cercato l’origine con la mano, un dubbio che mi si è sciolto nel palmo della mano arrossata. Solo allora mi è arrivato il dolore più crudo. Ho gridato.
Mi ha distratto per un attimo il rumore di uno stormo che si è alzato in volo reagendo al mio grido. Ho osservato queste creature figlie dell’aria. Sembravano possedere il segreto dello spazio celeste, traiettorie gratuite per loro, impossibili per noi esseri di terra, e nel cui ventre cerchiamo i nostri tesori. Ho dato di nuovo aria ai polmoni. Il corpo mi ha risposto con una fitta infame. Ho rischiato la perdita dei sensi, l’abbandono definitivo. Con un mugugno addolorato, ho ruggito la mia pretesa d’esser vivo. Il sangue, la neve, i pensieri che si confondono, il grido della carne. Tutto in me ora combatte questo dolore che mi parla con una lingua anche troppo chiara: il silenzio di mio padre.
Al limite dell’abbandono, vedo il suo volto: Marouk. Due volte gli sono debitore di vita. Spalanco gli occhi con la ferma convinzione che a casa non dovranno piangere due morti.
Sulle cime degli alberi un bagliore lontano, il sole che si affievolisce, le lacrime che mi si ghiacciano sulla faccia. Non è la fine. Sento l’avorio freddo sulle dita e capisco che adesso tutto è possibile, tutto è pronto per essere, non è la fine. Stringo in mano il futuro della tribù e sento il peso di una responsabilità, la voce del sangue che mi dice che devo alzarmi, farmi forza e andare via.
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L’autore
Filippo Cerri (1991) vive a Orbetello. Collabora con un’agenzia video con cui realizza prodotti audiovisivi. Ha pubblicato racconti in alcune riviste letterarie e in antologie curate da Effequ.
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