Letteratura in soggettiva – “Azzorre”, di Cecilia M. Giampaoli

    di Viola Bonaldi

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    Nel 2015 Svjatlana Aleksievičs viene insignita del Premio Nobel per la Letteratura, il primo, dopo più di un secolo, a essere assegnato a una scrittrice di non-fiction novel. Questo riconoscimento è parso a molti come una (tardiva) consacrazione di un genere che ha preso sempre più piede – in Italia e in Europa – a partire dalla fine degli anni Novanta come spuma dell’onda alzatasi un trentennio prima dagli Stati Uniti.

    D’altro canto, non è bastato a chiudere i dibattiti sulla maggiore o minore legittimità di annoverare la non-fiction nella grande categoria della Letteratura che, come i grandi temi del campo (per citarne un altro, il canone) non si chiuderà di certo in un battito di ciglio; ma lasciamo discutere chi ne ha facoltà e tempo: per dirlo alla Saviano (sì, lui, che della moderna non-fiction italiana è stato tra i primi portavoce) pur essendo il metodo differente – la cronaca, in questo caso – il fine è sempre quello: la letteratura. Non si tratta di descrivere la realtà ma di narrarla, plasmata da “scrittori affamati di realtà” continua lui “che partono dai fatti ma che credono sia possibile raccontarli con la libertà, la profondità, l’intensità della poesia. Il romanzo non-fiction racconta ciò che sta dentro le cose, sopra e accanto ai fatti, non i semplici fatti. Racconta quello che non era visibile ma c’era: le sensazioni, gli stimoli, le ipotesi. Questo la cronaca non può farlo: è dovere della letteratura.”

    Cecilia Giampaoli è esponente di quest’arte dello scrivere il reale – eliminiamo per un attimo l’infinità di categorizzazioni, new-journalism, non-fiction novel, autofiction, faction, reportage narrativo: di “realtà” (e non di verità) si parla; realtà nata dalla raccolta di informazioni, di preparazione, di storie umane, di esplorazioni, di caso.  Azzorre (NEO Edizioni) nasce dal viaggio sull’isola di Santa Maria delle Azzorre fatto 25 anni dopo la morte di suo padre, uno dei 144 passeggeri del velivolo che l’8 febbraio 1989 andò a schiantarsi contro Pico Alto, la cima più alta dell’isola. Un volo che ha preso lei stessa per tentare di dare un senso alle sue domande, per riscoprirsi e affrontare il suo rapporto irrisolto di “debito/credito” con quel territorio: è partita accompagnata da un tablet, macchina fotografica, videocamera “a basso profilo” – come la definisce lei – con l’idea di registrare in modo più onesto possibile cosa sarebbe successo in un viaggio di immersione totale nella propria storia.

    «Sono arrivata alla scrittura passando per la fotografia e il video, il viaggio; proprio viaggiando mi sono resa conto che gli strumenti che usavo non erano abbastanza agili per poter cogliere le cose quando era il momento giusto e non erano abbastanza invisibili per non mettere alcun tipo di filtro tra me e gli altri. Con la scrittura utilizzata in modo visivo riuscivo a rendere quello che potevo rendere con altri strumenti, forse in modo addirittura più facile. Nel 2012 circa ho iniziato a scrivere, le prime esperienze diciamo di “reportage”, ma reportage del quotidiano, di viaggi, diari molto brevi che erano quasi delle istantanee che pubblicavo su Facebook […] Dopodiché da lì ho iniziato.»

    Azzorre è il resoconto di viaggio di Cecilia che ha preso forma partendo dal diario personale scritto durante le settimane di permanenza sull’isola. Quello che poi è diventato un libro, nasce in realtà come progetto performativo: Cecilia segue i concetti dell’arte contemporanea (lavorando prima di tutto in questo mondo) per cui il peso dello strumento utilizzato viene meno, non incentrando in questo modo i contenuti sulla forma ma creando forme adatte a veicolarli.

    «Vengo da un mondo delle arti molto tradizionalista […] ma penso invece che bisogna essere liberi di utilizzare gli strumenti così come utile fare per quel determinato progetto. Per cui sono partita con quello che pensavo potesse servirmi a raccogliere del materiale e dopo ho deciso “sì ok il materiale vale per un libro”, poi ugualmente per il documentario [ora in produzione, ndr]: c’è ancora altro che deve venire fuori da qui, i materiali li ho e vado avanti.»

    Seguendo lo stesso principio, alla partenza l’obiettivo di Cecilia non era quello di pubblicare un libro, ma aveva la consapevolezza che quel mezzo, tra gli altri, poteva permetterle di raccontare la sua storia con più facilità.

    «La scrittura è un mezzo molto agile perché riesce ad abbracciare una visione descrittiva, una visione che il lettore può riuscire a non mettere in discussione. Nello stesso tempo puoi fare dei passaggi molto rapidamente nella dimensione della fantasia, descrivere in forma immaginifica qualcosa. Puoi fare dei flashback con grande rapidità, essere in una dimensione temporale e poi in un’altra, quindi la scrittura riesce a prendere quelle che sono, secondo me, le qualità migliori di diverse arti, diversi strumenti e linguaggi che ho sperimentato. Per dire, quello che devi fare quando lavori con la fotografia non è tanto inquadrare quello che vuoi inquadrare ma evitare quello che non ti serve. Quindi la cosa difficile non è vedere qualcosa, ma prenderla in modo che non ci sia nient’altro che toglie l’attenzione da quello che vuoi avere in luce. Nel campo dei reportage è molto più complicato lavorare con il mezzo fotografico perché ti deve andare molto bene, devi avere tutto preparato in modo molto naturale. Con la scrittura è molto più agile perché puoi scegliere di raccontare solo quello che vuoi mettere in luce e evitando di descrivere quello che magari non serve in quel momento. È un modo per portare la linea della narrazione così come dev’essere portata.»

    Per tutto il testo Cecilia usa la parola per fotografare luoghi, situazioni, persone, valendosi di strutture e frasi da reporter (non prettamente vincolate dall’emozione, questa è una conseguenza nostra dell’avvicinarsi alla sua storia) che lasciano al lettore uno spazio autonomo. Cecilia è narratrice dei suoi incontri, del suo vagare, della sua ricerca, è i nostri occhi, naso e orecchie; ma con noi, lei fa esperienza, è personaggio tra i personaggi, si immerge nel loro contesto e vive a pieno la sua storia. Costruisce quindi la narrazione su questo duplice livello: attraverso l’esperienza diretta ricerca la verità dei fatti (le storie dei testimoni, la catena di errori che ha portato alla tragedia) diventando così un canale di conoscenza; con il suo coinvolgimento diretto ci immerge in un sentire che, da estremamente intimo, diventa comune.

    «Secondo me questo tipo di scrittura fa sì che gli altri trovino il proprio spazio dentro a una situazione che ti coinvolge. Per permettere a quel qualcun altro di entrare nella tua sfera però, a mio avviso, devi lasciargli spazio. Se carichi la narrazione dei tuoi sentimenti, è molto facile che non ci sia spazio per quelli degli altri: invece se riesci a raccontare i sentimenti attraverso i fatti, a delineare quello che succede, quello che vedi, come lo vedi dal tuo punto di vista, permetti anche agli altri di mettersi in relazione con quello che tu hai vissuto, e quindi in qualche modo di abitare la tua storia, anche se poi significa magari metterci dei sentimenti che non sono gli stessi, questo è legittimo, anzi si spera che sia anche così.»

    Lei è una guida pacata, equilibrata, che con il suo scrivere diretto e sincero ci accompagna ad ammirare le onde dell’oceano e in egual modo ci trascina verso immagini di corpi smembrati e soccorritori impazziti. Un montaggio tra lingua e immagini dispnoico, che esalta ai massimi livelli le emozioni e l’empatia verso quella donna-bambina che si fa strada tra le vie di Santa Maria.            

    «L’autobiografia non è un tema per niente facile. Può essere facile nel senso che vai ad attingere con facilità alla tua storia, alla tua memoria, però riuscire a farlo in modo coinvolgente è difficile ed è difficile anche a convincere un editore che puoi farlo in modo convincente. Io ci ho messo 6 anni.»

    Come travagliato è stato il viaggio di Cecilia, lo è quindi stato anche quello del suo manoscritto, passato tra le mani di editori entusiasti e poi scomparsi, agenti letterari dalla creatività innata, forieri di idee acutissime per dare slancio al libro – “tipo che ne so, facciamo che tuo padre stava viaggiando per turismo sessuale?” – grandi lettori cittadini e conoscenze che l’hanno fatto arrivare, infine, sulla scrivania di Angelo Biasella, editore di NEO Edizioni, che con la sua squadra ha iniziato a lavorarci per la pubblicazione.

    «L’editing è stato bellissimo. Dipende tanto dalle persone che incontri, si tratta di lavorare con qualcuno che capisce dove tu vuoi andare e ti aiuta ad arrivare lì, non che vuole portare il libro da un’altra parte. Il libro ha avuto due fasi di editing importanti: la prima è stata a metà di questo percorso. Un amico scrittore e grande lettore si era innamorato del libro, è stato importantissimo perché mi ha obbligata ad andare in profondità in certe cose e in certi casi ad aggiungere quelle che adesso onestamente per me sono le parti più importanti, quelle legate alla memoria dell’infanzia, che ho ritirato fuori perché lui mi diceva “te qui devi andare giù, te qui devi andare giù”. E io mi ricordo ‘sta fatica gigante di stare su una storia così dolorosa, tanto alla fine arrivo lì e mi rimetto a piangere, ogni volta. Il secondo editing invece con Alex Piovan, un ragazzo bravissimo, è stata la sua prima esperienza di editing. L’ha fatto con una delicatezza tale che penso sia stata un’esperienza che ha fatto crescere entrambi, non mi ha mai imposto di togliere o aggiungere qualcosa. Un lavoro come questo ti costringe non solo a concentrarti sua lingua, ma veramente su di te. C’è una forma di messa in ordine organizzativa di pensieri, sentimenti, scelte, suoni, come se rendessero visibile qualcosa che prima è sfumato».

    Questo lavoro su se stessi, sui ricordi, sul passato, è espresso in primis dalla copertina di Azzorre, in cui una piccola Cecilia guarda in modo scostato verso l’obiettivo.

    «Ho spinto per una fotografia vera, perché mi pareva che centrasse col progetto, avesse un senso. È stata fatta l’anno successivo alla morte di mio padre e quindi per me è molto significativa per lo sguardo che ho. Molto ambiguo, ha una forma di leggerezza ma anche di… malinconia. Ed è quello che secondo me ti rimane dentro quando vivi un lutto così forte a quell’età. Sei un bambino e quindi riesci comunque ad andare avanti, a trasfigurare le cose, a fidarti della tua immaginazione per superarle, però nello stesso tempo qualcosa ti ha segnata, e da lì si vede. Gran parte del lavoro è scritto da questa voce qui. C’è una parte della memoria dell’infanzia che prende quasi sopravvento sulla mia scrittura, quasi come se ci fosse una parte di me rimasta bambina – nella mia vita c’è ancora – che viene fuori. Come quasi fosse lei a raccontare quello che succede. Per me è fondamentale.»

    Cecilia in Azzorre compone i ritratti delle persone incontrate così come le vede, senza forzare l’interpretazione o esprimere giudizi – nemmeno negli incontri più difficili. Storie di vita come ne ha sempre scritte, dove i personaggi sono persone vive, mosse da dinamiche da piccolo paese, sospinte dalla curiosità verso quella forestiera speciale e che ovunque inseguono. La sua indulgenza è presente in modo quasi inumano nel testo e trova apice nel momento dell’incontro più importante, quello con il controllore (uno dei responsabili della morte del padre), lasciato così intimo, in parte segreto, a preservare lei e lui, che qui – contro ogni logica istintiva – diventa vittima.

    «Non mi era più del tutto chiaro chi tra noi due fosse la vittima. Perdono ora, e chiedo perdono», chiude in libro citando Pavese: un omaggio alla vita, alle storie umane, alla letteratura tutta.

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    Abbiamo parlato anche di “L’invenzione degli animali” di Paolo Zardi, con Paolo Zardi.

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