Come un airone

    di Marco Corvaia
    illustrazione di Michele Rota

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    Il nostro è stato un amore tiepido, sprovvisto di comprensione, incapace di piacersi. Un fraintendimento tra estranei che adesso somiglia al sangue coagulato di una ferita. Ormai è soltanto un graffio sulla pelle e io gratto la crosticina con l’unghia; mi infastidisce il prurito dei ricordi ancora vividi, l’illusione del sentimento che è stato. Ho un’ostilità che divampa dalle carcasse delle abitudini che ho dovuto interiorizzare, da quelle che ho dovuto mitigare, dal tempo che mi è stato sottratto e che non riavrò. Poi attenderò che la pallida linea che ne resterà sparisca del tutto. Non voglio che mi rimanga addosso alcun segno.
    Olimpia chiude il libro e lo poggia sui seni, distesa su un letto che le sembra troppo grande. Riflette sulle parole, su quanto le sente sue, ma c’è troppo caldo. Come si fa a ragionare in una notte così afosa? Le manca quasi il respiro, ed è tanto stanca, le si chiudono gli occhi.

    Salta fuori dal letto con la mente ancora intorpidita, corre seminuda verso l’ingresso di casa, dà tutte le mandate della serratura, inserisce il chiavistello e preme con tutto il peso sulla porta, per impedire di irrompere alla tempesta rabbiosa di Jacopo; pugni e calci sono fulmini su ciò che li separa, spallate i tuoni che fanno tremare l’intera parete, insulti le folate di vento che sbraita.
    Un cataclisma notturno, come la maggior parte delle catastrofi naturali, che l’ha trovata impreparata. Una porta chiusa è l’apparente protezione a cui si aggrappa. Ma sa che non resisterà, quella trema a ogni corrente d’aria, come se rabbrividisse.
    Le ferie estive hanno vuotato l’edificio in cui abitavano, dove ha deciso di restare sola. Per un attimo si volta verso la camera da letto. Ha dimenticato il telefono sul comodino, che adesso le sembra più distante della luna, più della pace, più di ogni cosa che le è distante.
    «Vai via, lasciami stare. Riavrai tutto, non sono una ladra.»
    «Non sono qua per le mie cose.»
    «Allora vattene, ti prego, mi hai spaventata abbastanza.»
    Una pausa. Olimpia spiaccica un orecchio sulla porta per capire cosa succede dall’altra parte. Passi scendono giù per le scale. Un ulteriore sguardo dietro di sé, ma ha il corpo incollato alla paura. Ecco un rumore metallico e i passi che si riavvicinano.
    «Ho pensato… una sera di queste, mentre sei in giro con qualche amica, potresti incontrare un altro, qualcuno che cerca divertimento… che ti trascina in un angolo buio e ti dà quello che meriti… mangiarti quel bel muso, scavarti dentro, farti a pezzi, rovinandoti per sempre.»
    Olimpia deglutisce a fatica e genera intermittenti suoni di ossa e membra.
    «Questo pensiero mi ha fatto stare quasi bene, mi sono detto… è solo questione di tempo, perché sei una cazzo di ingenua. Ma stasera ho capito… non c’è motivo di aspettare.»
    Un colpo secco all’altezza della maniglia, il verso della rottura, l’infisso che cede. Due, tre, quattro colpi, mentre lei indietreggia, afferrando il primo oggetto che tocca, un pesante portacenere di vetro. La porta viene spalancata, sconquassata nel legno fradicio e nel ferro arrugginito. Compare Jacopo, sudato e nervoso, piede di porco stretto in pugno. Scansa il manufatto diretto al volto, entra in casa e riaccosta la porta distrutta. Nel pianerottolo restano i pezzi di vetro, sparsi come semi per un raccolto. Nessuno ne coglie il segnale.
    «Quello era mio. Lo hai rotto, come rompi sempre tutto», le dice fronteggiandola, enorme davanti alla sua esile figura.
    «Cosa vuoi ancora da me?»
    «Voglio stare meglio. Odio averti amata, ti darò quello che è giusto darti, ti tratterò come meriti, Olimpia.»
    Mai il suo nome è stato pronunciato come una sentenza. Quell’accento che tanto l’ha fatta ridere in passato, quella cadenza toscana che le dava il buonumore, adesso le sembra un orrore fonetico.
    Le piomba un ceffone sul viso tanto forte da farla precipitare a terra, poi la risolleva per un braccio e la trascina, mentre colpisce col piede di porco tutto quello che gli sta attorno, fracassando le loro memorie. Con un movimento rapido Olimpia sguscia dalla presa lasciandogli in mano un brandello di canottiera, si lancia sul telefono e lo agguanta, ma Jacopo la raggiunge subito e in una lotta di schiaffi e spintoni glielo strappa dalle mani e lo schianta contro la parete. Tenta di recuperare l’attrezzo da lavoro che gli è caduto e lei ne approfitta per divincolarsi di nuovo, scagliandosi verso la finestra per urlare a squarciagola, ma appena apre le imposte Jacopo la riprende, le arpiona la bocca e la spinge sul letto. Riesce a tenerla ferma solo schiacciandola con tutto il corpo, Olimpia si dibatte e si contorce come un animale indomabile, con la frenesia della combattività.
    Le preme la faccia contro il materasso per soffocare le grida e straccia l’intimo con due strattoni. Slaccia la cintura, tira giù i pantaloni afferrando anche i boxer e si intromette con una gamba tra le sue, tendendo il braccio per trattenerla. Lei non riesce a spostarlo, sente la sua pelle nuda contro il sedere scoperto, gli affonda le unghie sui fianchi e quello la molla. Olimpia salta via come una lepre selvatica, Jacopo è rallentato dall’incastro dei jeans alle ginocchia. Un filo di sangue le cola da una narice, mentre muove gli occhi alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, inutilmente. Si volta e lo vede ricomporsi velocemente, getta lo sguardo sulla finestra aperta, fa una corsa, sale sul davanzale e si lancia nel vuoto dal quarto piano.

    Non ti permetterò di farmi questo, ha pensato prima di saltare, non ti darò questo potere sulla mia vita.
    Un’operaia del settore manifatturiero si è tuffata nuda dalla finestra della sua camera da letto. Perfora l’aria sfuggendo al suo aguzzino, attraversa il calore estivo di Firenze a braccia aperte. Sta per sfracellarsi sul marciapiede sottostante, senza rimorso, senza angoscia, con una postura aerodinamica, petto in fuori, testa all’indietro e gambe piegate a simulare una coda, poi dà un colpo d’ali, e un altro ancora, iniziando una dinamica rotazione degli arti che sprigiona energia, sfruttando la propria leggerezza, e un attimo prima di colpire la strada di testa plana riprendendo quota, s’innalza con movenze da airone e vola via, lontana dal pericolo. È un uccello senza piume, senza becco, senza artigli, ma sfreccia più in alto che può.
    Disegna suadenti traiettorie nel cielo scuro, sorvola vicoli, chiese, musei, palazzi. La violenza è già dimenticata. Non si è neppure voltata a guardare la sua espressione quando l’ha vista volare via, non le importa di ciò che lascia. Si abbassa in accelerazioni passando tra i lampioni e sotto i ponti dell’Arno, torna su sbracciandosi in una felicità innocente, superando ubriachi, spazzini, automobili, biciclette, nascondendosi alla vista di chiunque. Osserva Firenze bianca di marmo e marrone di tegole, appuntita nei campanili e morbida nelle cupole. Ne ammira l’eleganza monumentale, mentre fievoli brezze le solleticano il collo. Gli Uffizi hanno braccia affettuose, visti da lassù, ponte Vecchio è un bassorilievo fiabesco, il fiume ondula come un gatto.
    Nota un’ambulanza posteggiata sul Lungarno, dietro un camion dei pompieri. L’inglese sguaiato di giovani americani che piangono e si abbracciano le arriva nitido, intanto che un vigile del fuoco si cala con una fune sulle sponde delle acque verdastre. È la solita morte di un ragazzetto ricco e beone. Immagina il fondale ricoperto di scheletri, un cimitero subacqueo. Risale salutando le nutrie e i mulinelli assassini.
    Firenze è una bellissima dama sdraiata in una conca che si guarda allo specchio senza crescere, senza dosare epoche e traumi, vuota come una vetrina in allestimento, con i suoi salotti esclusivi, le cerchie selettive e gli antiquari che sanno di polvere e puzza di chiuso. Olimpia vive lì da anni, ma si sente ancora una straniera, con un nome adattato per facilitare le presentazioni. Quasi non ricorda da dove viene: Ucraina, Polonia, Romania, Ungheria. Non conta più, è solo una straniera dell’Est Europa, questo basta.
    Da lassù ogni cosa le sembra più chiara, inquadrando lo scenario alla giusta distanza. Qui niente resiste, pensa volteggiando, in questa condizione niente può durare, l’esistenza si vuota del proprio senso, nell’agitarsi per la sola conservazione. Si appollaia su un tetto. Piazza S. Spirito dorme, mentre lei riflette su quanto i suoi trent’anni le sembrano troppi di più, per la fatica e le delusioni che si accumulano come un peso sempre più schiacciante. Vede dei panni stesi e prende una maglietta e dei pantaloncini, per coprirsi un po’. Poi si slancia in un tuffo che spaventa un cane che la guardava da un portico, tornando al proprio punto di vista, innalzandosi sopra le teste di tutti.
    Non vuole pensare più, questo momento non deve essere inquinato dallo sconforto. Si dedica ai virtuosismi alati, esibendosi per se stessa, libera e spericolata. Ma tra una giravolta e una spirale affiora improvvisamente la curiosità di sbirciare dai lucernari e dalle terrazze, come un impulso irrefrenabile. Svolazza attorno agli appartamenti, alle architetture, alle statue, finché un movimento lucente l’attira.
    Si adagia sulla ringhiera di un balcone. La tenda rossa è un velo d’atmosfera tra il suo sguardo e la passione di due amanti distesi su un tappeto. Si sposta alla finestra accanto, per nutrirsi di bellezza, compiacersi della melodia corporea dell’affetto. Ha la sensazione che il sesso per lei non lo sia mai stato. Un compito da assolvere, questo sì, un obbligo sentimentale, un dono da elargire o un’estorsione. Mai semplice amorevolezza, mai l’abbandono a un viaggio sensoriale.
    Ignora l’imbarazzo e scosta la tenda con la punta delle dita, per guardare meglio. Nella stanza c’è il caos, persino la luce è capovolta. Anche qui sembra essersi abbattuta una tempesta, ma di altra natura; in questa coppia c’è ardore, entusiasmo, rispetto. Sembrano fiammeggianti. Eppure smette di guardare. Sta per lasciarli alla loro intimità quando vede un oggetto che le è familiare, poggiato su una mensola: lo stesso libro che stava leggendo prima di addormentarsi… prima dell’invasione di Jacopo. La finestra è solo accostata, la spinge delicatamente, allunga un braccio dentro la stanza e lo afferra. Si ripara sul balcone per non farsi scoprire e lo apre alla pagina in cui si era fermata.
    Invece lui ha deciso di divaricare il taglio, tanto da ficcarci dentro la testa e divorare l’interno della sconfitta, la sua personale sconfitta che puzza di frustrazione. Così gli è stato insegnato a vivere questi avvenimenti, non è in grado di analizzarne la sostanza, non può che recepire il rifiuto come umiliazione, che dovrà ritorcere sull’altro con i mezzi più meschini di cui è in possesso. Il rifiuto gli è inaccettabile, per quanta morbidezza sia stata usata.
    Mi dichiarerà guerra. Il conflitto sarà inevitabile. Non posso che farmi trovare pronta.

    ***

    L’autore
    Nato a Palermo nel 1980, autore di Pino se lo aspettava (Navarra Editore) e Post somnium (Ensemble). Numerosi suoi testi (racconti e poesie) sono stati pubblicati su riviste letterarie, tra cui: Pastrengo, Il rifugio dell’Ircocervo, L’irrequieto, Formicaleone, Neutopia, La nuova carne, Larosainpiù, Digressioni, Spore, Spazinclusi, Split, Suite italiana, Altri Animali, Malgrado le mosche, Blam, Risme e altri ancora.

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