Di là qualcuno ride
di Antonio Potenza
illustrazione di Michele Rota
“Chi siete voi, animali, psychai che ci visitate in sogno?”
Presenze Animali, James Hillman
Amazon dice che il pacco con le fiale arriverà tra due giorni.
Nel mentre cerco di arginare i danni come posso. Alessio, il mio parrucchiere, mi ha consigliato dei prodotti. Mi convinco, decido di usare uno shampoo alle olive toscane, la cui confezione assicura una resurrezione completa dei bulbi. E io alle confezioni tendo a credere.
Il dermatologo aveva decretato già lo scorso giovedì la morte dei miei capelli. La faccia sconsolata preannunciava il peggio, poi ha preso coraggio e lo ha detto ad alta voce: sarai calvo.
Il ritorno a casa fu un film in bianco e nero, con me in piano sequenza che non smetto di piangere dall’auto fino alla porta di casa. Me la richiusi alle spalle, smisi di piangere, si spense la telecamera. Dopo lo sfogo non mi diedi per vinto. Chiamai Alessio che, contrariamente al medico, rispose alle mie preoccupazioni con un certo entusiasmo. Mi prescrisse le fiale, poi lo shampoo. Pazienza e costanza, i risultati arriveranno.
Così, da quella chiamata ho cominciato a sviluppare disturbi ulteriori e collaterali. Valeria mi chiama da tre giorni, tuttavia mi pare inopportuno farmi scopare in queste condizioni. Luca ha smesso di cercarmi dopo la decima chiamata, le birre potranno aspettare. Mamma è l’unica che ascolta i miei deliri attraverso il telefono. Intanto inizio a controllare i buchi nella testa con attenzione.
La realtà si assottiglia tutte le volte che inclinando il cranio cerco di scrutare le valli scevre che si aprono tra i boschi ricci e scuri. Con le dita indago porzioni nude di cuoio capelluto, sporcate da deboli fili neri. Il loro biancume risplende come i cocci di silicio tra la terra bruma in estate. Talvolta mi capita di concentrarmi e vedere la pelle raggrinzita e inospitale. Tra i capelli, concludo, mi rimangono lande aride e desertiche.
Anche al lavoro ho informato della mia situazione. Dalle risorse umane mi hanno chiesto preoccupati cosa avessi. Sto molto male, ho detto, forse accentando un po’ troppo il mio malumore. Fatto sta che l’effetto è stato proporzionale alla mia finzione. La redazione mi augurava pronta guarigione e me lo faceva sapere con una pioggia di messaggi.
Oggi dovrebbe arrivare il pacco. Leggo nella sezione relativa ai miei ordini: in consegna. Quindi mi inonda una spasmodica frenesia dell’arrivo. Lavo i piatti, bevo il caffè, mi alleno appena, ho i muscoli facciali perennemente contratti in un sorriso. Ci metto più cura del solito nel prepararmi il pranzo. Non scelgo la solita scatoletta di tonno, ma preparo un bel piatto di pasta al sugo alla cui sommità poso una foglia di basilico. Persino le forchette sono ordinate ai lati del piatto e metto sul tavolo un bicchiere: oggi non tracannerò dalla bottiglia. Mentre mangio i primi fusilli, mi guardo dall’esterno e mi sento patetico. Aspetto questo pacco come un invitato, gli riservo la stessa felicità educata.
La forchetta cade sul tavolo con un tintinnio acuto quando ripenso alla mia calvizie. Improvvisamente e senza nesso. Il solo pensarci mi fa perdere l’appetito, quindi mi alzo fumo una sigaretta sul balcone e vado nuovamente in bagno, a posizionarmi di fronte allo specchio. Osservo il volto. A tenerlo dritto, il problema non si pone. Il vuoto si percepisce se ruoto il capo. L’adrenalina improvvisamente fugge via dal corpo e mi attanaglia una codardia nuova. Spengo la luce e me ne vado in camera, rifiutandomi di guardare nuovamente. Fisso il soffitto, disteso sulle lenzuola pulite. Guardo il pezzo di cielo e di condominii limitrofi che entrano attraverso le finestre. Dagli infissi poco spessi filtrano i rumori del traffico. La nenia della città mi culla in modo tenue.
Mi sento leggero, mi chiedo se non sia a causa della mancanza di materia cheratinosa sul mio cranio. Percepisco la pelle delle gambe ammorbidirsi a contatto con il lino delle lenzuola, i peli si rizzano all’altezza del ginocchio come scossi da una brezza tiepida, l’addome respira più lentamente, si gonfia e si sgonfia con un dolce ritmo. Lentamente mi stacco dalla stoffa, percepisco cioè una certa distanza d’aria che s’allarga tra il mio corpo e il letto. Fluttuo. Ma debolmente. Quasi levitando a pochi millimetri dal letto. La sensazione è tanto chiara, quanto straniante. Mi appare fragile, potrei cadere, penso: ma al contrario precipitare non significa tornare sul letto, ma capitombolare lungo la voragine di piume bianche che si è appena aperta nel materasso. Guardo appena giù: sul fondo ci sono volti sorridenti e altri inorriditi. I primi ridono, i secondi mantengono un silenzio disgustato. Entrambe le fazioni hanno gli occhi puntati verso il mio cranio che adesso come una meteora lucente e glabra cade folgorante nella loro direzione. Non li vedo preoccupati, stazionano nell’intestino della voragine con gli indici alzati e puntati verso di me. Mi schianterò sulle loro facce, penso, poi ho come la sicurezza che possano sbriciolarmi come fanno le comete con l’atmosfera. L’attrito dei loro sguardi sulla mia pelata mi ridurrà a un innocuo sassolino.
Mi sveglio dall’incubo con una tachicardia leggera. Sono preoccupato, se avessero suonato durante il sonno? Di corsa controllo il cellulare. Lo schermo mi restituisce la serenità. In consegna, dice ancora. Mi preparo un caffè, lo ingurgito abbastanza velocemente, colmo di un’angoscia tremula. Ha un sapore nuovo ed estraneo, mi ricorda radici acide. Dalla sigaretta riesco a tirare via un paio di tiri, poiché l’inquietudine mi costringe a guardarmi allo specchio e la lingua mi restituisce un bruciore pacato. Il pacco è prossimo e ho più coraggio.
Mi scruto il volto segnato da righe morbide e rossastre. Abbasso la testa e mi accorgo di un prurito che mi pervade il cuoio nella parte centrale. Sposto le dita, non riuscendo più a vedermi. Lì è una zona oscura in cui posso cercare le verità solamente con le mani. Con il tatto, infatti, percepisco i campi bianchi tra i cespugli neri, fino ad avvertire una consistenza nuova. Non è pelle. Non sono capelli. Si tratta di una fibra mai sentita sulla testa. Pizzica se la sfrego al contrario. Corro a prendere un secondo piccolo specchio da posizionare alle mie spalle. Nel gioco riflettente mi guardo. Con l’altra mano mi aiuto con il tatto per capire. La blocco, la pizzico, la tiro oltre la pelle secca e vuota della testa. Ignoro il dolore e continuo ad estrarre la totalità della fibra, fino al punto in cui la dolenza smette. Tra le mani ora guardo una piccola piuma bianca insanguinata, mentre dagli appartamenti attigui arrivano risate fragorose. Di là, qualcuno si diverte.
Vomito nel lavabo e quella cade leggera sul pavimento, sporcandolo appena di amaranto.
Nello stesso momento squilla il telefono. Rispondo a mamma in modo pacato, per quanto possibile, poi chiudo di fretta e ricontrollo la spedizione di Amazon. In consegna, promette ancora.
Adesso, a due giorni di distanza, il pacco non è ancora arrivato e il cellulare racconta la stessa frottola, in più le risate sembrano aver intaccato le pareti. Come sfioro l’intonaco avverto sghignazzi che si propagano nell’aria. Non è solo mala edilizia.
Ad ogni colpo di spazzola che passo sulla testa, tra foreste di fili neri sempre più sottili, corrisponde una piuma d’aquila che sbuca dai pori. Ora tutta la folta chioma che era resistita alla calvizie abbarbicandosi lungo l’ultima parte del collo, nella parte più bassa della calotta, è stata sostituita da morbide piume bianche. Non saprei dire di quale volatile, però.
A mamma ho detto che ho la gastrite. A Valeria, in lacrime, che non era più il caso di stare insieme. Nemmeno Luca è sopravvissuto al tentativo di estraniarmi dal mondo. I dottori durante le mie chiamate hanno pensato a uno scherzo. Ho sognato di essere un freak con la testa da uccello, il capo circo mi presentava al pubblico che a sua volta apprezzava con comico disgusto la visione, per poi riempirmi il corpo con una doccia di mangime. Mi sono quindi svegliato di soprassalto: ero davvero un mostro.
Questa mattina ho già fumato dieci sigarette, negli altri appartamenti non la smettono di ridere. Corroso dal panico, immobilizzato dalla repulsione verso me stesso, mi guardo i piedi con vuota insistenza.
Il cellulare si illumina, balugina il nome di Alessandra. Sono tentato di non rispondere, nascondendomi dietro un silenzio casuale. Tuttavia rispondo, colto da una certa idea.
Quando apre la chiamata è sul divano, riconosco la maglietta che comprammo insieme ad Amsterdam. Gli occhiali sempre sulla punta del naso. Dice che a Roma si sta benissimo, che è quasi estate. Poi nota il mio cappello. Mi chiede come va a Milano. Rispondo una merda. Ma il cappello? Lo tiro via e le mostro il fattaccio. Sorprendentemente non si scompone. Chiede solo come mi può essere utile.
Mi volto di scatto verso il muro bianco. Mi chiede che succede. Ridono, le rispondo, ridono in continuazione, non li senti? Scuote il capo e ripete la domanda di prima.
Ecco l’idea. Le carte, dico io. Leggimi le carte.
Un brillio dell’iride mi suggerisce il suo entusiasmo. Poco dopo ha già il mazzo in mano, abbassa la camera del telefono in direzione del tavolo. Credo agli arcani con lo stesso trasporto con cui confido nelle confezioni.
Avvolta dal fumo della sigaretta ne capovolge tre, mugugna parole che mi arrivano incomprensibili, poi mi rende partecipe del loro significato. Vaneggia su cambiamenti e nuovi lavori. Niente che mi interessi. La profezia poi mi arriva in modo del tutto esclusivo, in una bolla di silenzio che mi ovatta dal suo sproloquio. Le mie orecchie non percepiscono mai dalla sua bocca la parola guarigione o metamorfosi, non colgono per questo la mia attenzione. Mi invade la calda consapevolezza di essere ipnotizzato dall’ultima figura che ha scoperto sul tavolino. La osservo. Un grosso volatile candido allarga l’impalcatura alare su un pianeta bianco. Dopo quelli che a me sono sembrati diversi anni di esame e meditazione, mi accorgo che l’esemplare è un’aquila reale e che ciò che stringe sotto le unghie ricurve è un cranio ripulito dalla sua carne. Passano ancora dieci anni: contemplando la carta, scopro che si tratta del mio lobo parietale. Fermo il sermone di Alessandra con un colpo di voce rauco. Qualcuno che non sono io parla attraverso la mia gola. Colgo lo sgomento sul suo viso. Torno nel presente e porto ad Alessandra la novella dal futuro: le fiale non mi serviranno, dico ad alta voce. A consegna ultimata, con la testa ormai piumata aprirò al corriere di Amazon per ringrazialo, ma spiccherò il volo sulla città.
E di là, nessuno riderà più di me.
***
L’autore
Antonio Potenza (1993) è nato in provincia di Lecce. I suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, Micorrize, Pastrengo, Spaghetti Writers, La Nuova Carne, Morel-Voci dall’Isola, Rivista Blam, Suite Italiana, Spore e Lahar Magazine, Il Rifugio dell’Ircocervo e altri. È stato editor di Sundays Storytelling. Ha co-fondato Salmace.
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