Essi vivono – L’età della tigre, di Ivan Carozzi
testo di Chiara Generali
Come nei due testi precedenti, I figli delle stelle e Teneri violenti, con L’età della tigre, edito da il Saggiatore, Ivan Carozzi usa la scrittura come strumento di scandaglio personale, endoscopia segreta.
Il saggio nasce, per ossimoro, dall’aborto di un articolo sulla trap, fenomeno giovanile che pare aver colto tutti alla sprovvista in una sorta di abbaglio collettivo, compreso dalle generazioni intorno ai vent’anni e al contrario scrutato ora con sospetto, ora con sufficienza, ora con disarmata incomprensione da chi ha soltanto qualche anno in più.
L’Età della Tigre non tarda però a rivelare una complessità difficile da intuire di primo acchito e altrettanto ardua da sintetizzare. Giunti alla fine, in testa ronzano forse più domande che effettive risposte, e riecheggia un celebre passo del Libro dell’inquietudine di Pessoa: «Io sono la periferia di una città inesistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. […] Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere».
Da movente iniziale, infatti, l’indagine sulla trap diviene pretesto per affrontare qualcosa di più complesso e torbido: un confronto-resoconto tra passato e presente, sullo sfondo del tempo che passa e dei cambiamenti che porta con sé. Carozzi si apre a un dialogo sincero, mai paternalistico, rispetto al mondo degli adolescenti – ai suoi occhi opaco – e alle tendenze che ad esso si accompagnano; detto altrimenti, rispetto all’età delle tigri, di quelli che ruggendo vivono da protagonisti, mordendo il momento, volendone occupare pienamente il palcoscenico.
Per comprendere meglio è però utile pensarsi dall’altro lato, quello di Carozzi, cioè adottando la prospettiva di chi con questo universo sente di aver poco da spartire eppure ne è richiamato, in un contrappunto di attrazione-ripulsa che invoca anche gli strumenti per tentare di decifrarlo. Da qui le incursioni nell’universo di un grappolo di nomi tra cui Sfera Ebbasta, Dark Polo Gang e Ghali; o ancora, le immersioni nel mondo dei Millenials e dei suoi idoli, nell’alfabetizzazione a una nuova lingua che pullula di bufu, bitches o outfit contest, in un milieu culturale nel quale l’Auto-Tune incarna lo spirito del tempo.
Lo sfondo di questa quête è una Milano costruita sui contrasti, «bozzetto di sgraziata poetica ipercapitalista», da Viale Monza, «terra di fantasmi e visioni», fino al quadrante a due passi da Brera, con l’ago di Oldenburg e van Bruggen a far da perno giallo-rosso-verde.
Labirinto di vie note, tela cubista in cui convergono prospettive antitetiche, Milano è bifida e in entrambe le sue vesti avvinghia a sé, ammalia e trattiene, donando la protezione di un ventre materno. La capitale parlata ai vertici dalle gigantografie pubblicitarie, nel tessuto urbano delle periferie concede una tregua dalla forza centripeta della spersonalizzazione:
«Quando la città offre una forma di rivelazione, tanto più si lega alla tua vita, se in modo inatteso, nei suoi ex quartieri dell’industria chimica e meccanica, ti riporta […] alle tue prime ore di ogni giorno, a una sensazione celata e preziosa come il delicato sollievo della glicerina sulla pelle.»
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In questa città che rigurgita il presente si muovono l’autore e le tigri, reciproci rappresentanti di universi agli antipodi. Essi, profani idolatri del capitalismo sfrenato e del consumismo spinto – emblematica a tal proposito l’immagine di Sfera Ebbasta che vuota per strada una bottiglia di champagne – e Carozzi, esponente della generazione Y, inciampato nel tentativo di restare al passo, preso dal desiderio di dare una risposta alla domanda: queste le nuove ossessioni che abitano il presente?
L’impianto del saggio è piuttosto anomalo: un testo dinamico, fatto di giustapposizioni, fortemente narrativo; la struttura è aperta, disponibile a divagazioni che approdano a una dimensione intima, privata, grazie a uno slittamento rispetto al tema centrale in grado di regalare anche momenti di dolcezza. Il tratto stupefacente di questo libro è il coinvolgimento che riesce a sviluppare nel lettore.
La rabdomantica ricerca di senso dell’autore, disincantato flusso di coscienza, diviene la nostra, e di fronte a un mondo governato dal «timore umano di perdersi dei pezzi, di non comprendere più» anche in noi si spalanca l’orrore del vuoto. A rapire è il senso di inadeguatezza – e, pare, anche di fallimento – che finiamo per sentire di riflesso, appiccicatosi addosso come la foschia vischiosa dell’hinterland. Si deambula, non si distingue in modo nitido.
In cerca dell’origine della configurazione attuale, lo sguardo si rivolge indietro, quando «non c’era altro che una lenta distesa di tempo». Tempo cercato, desiderato, e nelle cui volute fumose ci si abbandona come di fronte a un seno prosperoso. Emerge un mosaico di polaroid sbiadite: la cultura degli anni ‘70-’80 è accarezzata con nostalgia, ripercorsa con delicata insistenza, i cui ultimi barlumi Carozzi ritrova solo nei quartieri più defilati, come al mercato delle pulci oltre Piazzale Cuoco, vera e propria Vārāṇasī lombarda. Si riaccendono in questo modo ricordi sepolti di amicizie giovanili come l’amico Morfeo, o immagini cristallizzate del padre e del suo laboratorio, e viene riattivato il desiderio di un salario, di un impiego fisso, di rapporti stabili. In questi angoli popolari, che non mascherano la difficoltà del vivere e tutta la sofferenza che questa può trascinarsi con sé, tra gli orologi di Rafik e la donnina che chiede l’elemosina, l’autore ritrova parte di quell’umanità eclissatasi dietro i bagliori della vita mondana.
Così, le ultime pagine regalano una boccata di ossigeno: nell’autore si impone il rifiuto verso quanto offertogli dal vortice spumeggiante della Milano bene, in fondo al quale non si trova che un ulteriore senso di svuotamento e altra fame di successo a divorare le viscere, al ritmo dei beat di un inno allo spreco:
«[…] Ciò che incontro nell’aula del mio foro interiore è solo un chiaro e genuino “preferirei di no”, come ripete, ogni volta che viene interpellato dal datore di lavoro, lo scrivano Bartleby di Herman Melville.»
Carozzi si arma di una rinnovata negazione dell’estemporaneo, forte di uno sguardo pronto a cogliere il dettaglio, le pieghe dove si annida la vita lontano dai bagliori violenti degli schermi e delle merci esposte: «Credere che in qualche anfratto si nasconda ancora un segreto, un’illusione, è il solo modo per apprezzare interi isolati dove col tempo si corre il rischio di perdere la vista».
Ricacciando il mondo delle tigri nel profondo della sua stessa superficialità, esorcizza la paura di un’evanescenza esistenziale. Arrivato alla fine, forse «non interpretato, non codificato, non misurato e scannerizzato, e quindi anonimo, sconosciuto, perciò libero e in pace», Ivan Carozzi respira. E noi con lui.