Eva, 26 anni, 1 km di distanza

    di Gabriele Orsi

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    Comunque la sera, dopo il lavoro, torno a casa stanco morto. Non ho la forza, né la voglia, di fare niente. Una cena veloce, una sigaretta veloce, una lavata veloce e, veloce, sono già sotto le coperte, una mano nelle mutande e l’altra in presa ergonomica sul cellulare aperto sul mio sito di incontri preferito, Tinder. Destra sinistra destra sinistra, mi piace non mi piace mi piace non mi piace. Da due mesi a questa parte le mie donne le scelgo così. Le impilo a destra se mi piacciono, a sinistra se non mi piacciono. Voglio te, a destra, non voglio te, a sinistra. Semplice. Voglio te non voglio te. Destra, sinistra. Non cerco una ragazza in particolare e non cerco qualcosa in particolare. Mi basta scambiare due parole con una di loro in chat, portarla nello spazio più intimo di Whatsapp, convincerla a passarmi qualche foto da custodire perversamente nel mio archivio e poi darle una buonanotte che sa tanto di estrema unzione. Qualche volta ci scappa un appuntamento. Raramente (ma puoi anche leggere: mai) ci finisco in un letto. Ma non perdiamo tempo.
    La prima fila di questa marcia erotica è occupata da Deborah, 23 anni, 7 km di distanza, assistente di volo; via, non mi piaci. Le ragazze con la testa tra le nuvole, dio me ne scampi. Poi è il turno di Lauren, 24 anni, originaria di San Diego, California, temporaneamente in Italia per un Erasmus. Due begli occhi azzurri e una dentatura tipically american. Non fosse per la didascalia che correda la sua foto profilo, che in italiano suona tipo: “Amo chi sa farmi ridere, ma sono diffidente”, l’avrei anche accatastata sulla destra, ma non mi sento ancora pronto per far ridere una donna. Via a sinistra, non mi piaci manco tu. Marta, invece, ha 32 anni e studia – ancora? – medicina. Ha i capelli mossi, troppo mossi, così mossi che a forza di guardarli mi viene il mal di testa e io ho pensato cristosanto, se potessi parlarle le direi ma mentre perdevi tempo con medicina, cristosanto, un colpo di telefono al parrucchiere potevi pure farlo. E allora la butto a sinistra, nel sensuale meccanismo di riciclaggio che farà magicamente apparire il suo profilo a un competitor con un pigiama sicuramente più eccitante di quello che indosso adesso. Passo Cassandra, troppo alta, sorvolo su Kerstin, troppo esuberante, mi soffermo più del dovuto su Livia e salto a piedi pari Erika-con-la-kappa. Poi – miracolo! – ecco Eva. Ha 26 anni e dista – solo! ­– un chilometro dalla mia posizione, che tra parentesi è un fattore determinante in questo genere di faccende. Eva ha un nasino tenero tenero e le sue labbra – a dire il vero troppo fini per i miei gusti – sembrano sussurrarmi: “Scegli me, scegli me”. Niente didascalia strappacuore, assenti gli scatti nei bagni dei ristoranti e pure quelli con qualche animale da guinzaglio addomesticato. Solo una foto a mezzo busto, un sorriso dall’aria forzata, una folata di vento le sbatacchia i capelli. Alle sue spalle c’è il mare. Un mare qualsiasi – Barbados? Ladispoli? Saint-Tropez? Ostia? – il che la rende molto intelligente ai miei occhi assonnati. Zac, a te sì che ti butto a destra. Istantaneamente parte una standing ovation e lo schermo del cellulare è un trionfo di colori e di esplosioni: È MATCH! Tinder esulta: io ed Eva siamo compatibili, cioè i nostri caratteri sono praticamente sovrapponibili, cioè è lecito attaccare bottone. Iniziamo a scriverci. Ciao, le dico, ciao, mi dice, come stai, le dico, bene tu, mi dice, bene anche io, le rispondo, ma insomma, le faccio, ce lo dice anche Tinder che siamo compatibili, metti caso che è vero? e lei: Uh! Dovremmo tentare magari ci piacciamo, e allora tentiamo, le rispondo, non sia mai che ci piacciamo per il verso giusto (faccina che ride).
    Stringi stringi ci diamo appuntamento in un locale neutro, vale a dire un posto abbastanza squallido da tenere lontane facce conosciute ma abbastanza cool (e per cool intendi: cucina cino-giapponese) da non farmi sfigurare. Con Eva ci siamo visti una sola volta e non è andata granché.

    Eva è una ragazza squisita, ma devo ammettere che le foto del suo profilo Tinder hanno decisamente gonfiato le mie aspettative. Di tanto in tanto le scappa una bestemmia e a tavola fuma una sigaretta elettronica di ultima generazione, benché sia convinta che l’ascendenza borghese di questa pratica non collima con quella più autenticamente viscerale di sacramentare con enfasi se la conversazione prende una piega socio-generazionale. Il suo passato è oscuro tanto quanto il suo presente e sembra intenzionata a non parlarne. Attualmente è inoccupata – ci tiene a farmi capire la differenza tra un disoccupato e un inoccupato – ma grazie allo yoga sta riscoprendo le cose importanti della vita. Tipo: ascoltare gli amici; aiutare gli amici ad aprirsi con lei; portare gli amici sulla via della felicità. Fuma come una turca da quell’affare che puzza di tante cose, odori che presi singolarmente non sarebbero manco cattivi ma che nell’insieme risultano davvero sgradevoli. Tuttavia, si affretta a spiegarmi, sta cercando di smettere e vuole a tutti i costi illuminarmi sulla ragione sociologica del suo ragionamento: fumare acqua è un atto di ribellione inconsistente, tale e quale alla nebbiosa condensa che produce quel coso-che-brucia-liquidi-di-oli-vegetali-invece-del-tabacco. Io la sto a sentire con la faccia di chi attende il resto da una eloquente cassiera di un supermercato, e nel frattempo tento di insinuarmi con discrezione nella sua scollatura. Lei però deve essersi accorta di qualcosa, e con altrettanta disinvoltura si aggancia l’ultimo bottone della camicetta. Evidentemente non vuole che il suo seno mi distragga dal punto chiave della sua elucubrazione. Scimmiotta la propria categoria di fumatori con una voce mascolina. Ne esce una scenetta divertente. Dice: Prima fumavo – boccata, aspirata, pfuu – ora ho deciso di smettere; come vedi, ho un passato consistente di cui voglio apertamente liberarmi – pfuu; ho una storia, io, e voglio farti vedere che ce l’ho, la mia storia di tabagismo – pfuu – sfrenato senza la quale non sarei chi sono adesso, anzi non sarei niente – pfuu – a fanculo le radici la famiglia l’amore la fede, questo aggeggio, vedi, è variamente utile per contestare il passato che è la mia narrazione fino ad oggi e sì – pfuu – io te lo lascio solo intuire gettando vapore dalle narici perché tu sappia che io sono esistita prima di – pfuu – te, e tu sei arrivato in ritardo, bello, quando la peggiore parte di me è sbiadita, fortunato che sei, ma in ogni caso puoi sempre starmi a sentire e goderti la grandine che ha tempestato i miei trascorsi; sai – pfuu – ogni uomo è la sua storia e io, pensa un po’, chi poteva immaginarlo eh? – pfuu – ne ho una, porca della mado***. – Oplà, – Cristo, m’è scappata, – Figurati, stavi andando benissimo. Vuoi un po’ di rafano? Sul pesce è di-vi-no.
    Eva infila un dito nella coppetta del rafano e lo spalma su una striscia di salmone. Eva, che non è mai stata prima in un ristorante giapponese perché, mi spiega, disprezza le mode e la loro tirannia, e si dà il caso che la cucina giapponese sia proprio la moda del momento, assaggia la pallina di riso con sospetto, poi la sua faccia si contorce in una smorfia di disgusto e sputa sonoramente un bolo rosa sul piatto. L’attenzione del ristorante è tutta per noi.  – Adesso spiegami una cosa – mi fa – pretendi pure che io paghi per questa merda? Pizzica da morire, e le cose che pizzicano mi urtano dentro.

    A metà cena mi si para davanti con evidenza che Eva non è particolarmente portata per la conversazione. Non che non abbia cose da dire. È solo che quando prende a spiegare un concetto, l’interlocutore, in questo caso io, deve fare uno sforzo non indifferente di concentrazione per starle dietro. Ecco, sì, mentre seguo le acrobazie delle sue labbra impiastricciate di un rossetto granuloso – ma sono assorbito da una sezione precisa della sua bocca, l’angolo sinistro – la testa mi prende a girare.
    – E la famiglia? – le chiedo. – Lascia perdere – mi risponde. – Cioè? – le chiedo. – La mia famiglia è out – dice. – Cioè? – Buco nero – Cioè? – A questo punto Eva allarga le braccia e fa finta di prendere una palla gigantesca – Black hole –, Cioè? – le chiedo. – Cioè è in down. La mia famiglia è temporaneamente in stallo. Pericola su un baratro nero nero nero. E io ne soffro. – Wow – Sbuffa. Poi: – Non sono stata abbastanza chiara? – mi fa cerchiando con un dito la propria testa – non la vedi la mia faccia? Io sto male. – Sei stata molto chiara, chiara oltre misura, è solo che, cioè, mi piacerebbe sapere qualcosa di più. Tipo se hai una sorella o un fratello, che lavoro fanno i tuoi genitori o se–– Vuoi sapere che lavoro fanno i miei genitori? – mi interrompe. – Sì, – Lascia perdere, – Cioè? – Il conto – dice. – Cosa? – Il conto, cazzo – Eva inizia a urlare, e di nuovo siamo il fuoco dell’attenzione – Il conto lo vuoi chiedere o no, porca di quella santissima troia?
    Obbedisco senza fiatare e mi alzo, ma ecco cosa succede: nei pressi della cassa, dopo aver frugato nel cappotto, realizzo che non ho il portafogli. Faccio per tornare al tavolo ma Eva, non saprei dire né come né perché, è proprio dietro di me. Mi getta uno sguardo e ha già capito tutto, perché quelle come lei hanno il dono di conoscere il da farsi nell’arco di un istante. Divarica un sorriso, e a questo punto comprendo con serio rammarico che la mia serata è giunta al termine e che nessun seguito potrà riscattare la mia attuale miseria. Dalle stelle alle stalle in meno di trenta secondi. Io mi fisso di nuovo sull’angolo sinistro delle sue labbra. – Brutto cazzone, non hai i soldi vero? – mi dice. – Ma sì, certo che li ho, è che il portafogli – Eva mi poggia un dito sulle labbra e scoppia in una risata al limite dell’umano, si piega in due e di nuovo il ristorante non ha occhi che per noi e io sprofondo nell’imbarazzo, la mia fronte è rorida di sudore. Con un gesto del braccio mi dice “Scansati” e tira fuori dalla borsa il suo portafogli con un movimento talmente naturale che mi ritorna indietro come una fiondata. Eva estrae una carta di credito – io, a dirla tutta, avrei pagato in contanti, ma chissà come l’avrebbe presa – e la passa all’uomo dietro la cassa. Digita il codice poi si gira verso di me, io che tutto sommato rantolo già da un pezzo in una condizione di rassegnata attesa, pronto a essere colpito, e alla fine Eva si decide a parlare e io non posso far altro che subirle, le sue parole, le sento arrivare come quando, durante l’esame della prostata, sento alle mie spalle lo schiaffo del guanto di lattice sulla pelle del dottore: – Sei proprio un morto di figa – mi ha detto.

    Riaccompagno a casa Eva. Parliamo poco. Fermo la macchina davanti a un robusto cancello sorvegliato da telecamere e sono pronto a beccarmi il suo dito medio prima di vederla scendere dall’auto. E invece: – Ti dispiace se fumo? – mi fa. – Figurati. – Però spegni la macchina, che inquina.
    La circostanza mi coglie impreparato. Non essendo arrivato spesso a questo punto, quando capita sprofondo nell’imbarazzo e non so bene come comportarmi. Fortuna che accanto a me c’è una ragazza di nome Eva. – Sai – mi dice – io non sono così.
    Ecco, penso, ci siamo. Quel momento in cui due perfetti sconosciuti, o comunque due conoscenti in erba, iniziano a vomitarsi addosso certi rimpianti, ad azzardare correzioni e a tentare di riaggiustare qualcosa che non sarebbe dovuto accadere ma che malauguratamente è accaduto. Io mi sforzo di non farlo mai: insomma, le vorrei dire, se non sei così perché allora sei stata così? Perché infioretti le tue riflessioni con un eloquente insulto alla madonna o al padre nostro? Perché invece di parlare come tutti, prendi a urlare? Eva fuma con avidità e piange la propria inadeguatezza. Sceglie le parole con cura e, con quello che mi sembra uno sforzo sovrumano di autocontrollo, fa attenzione a non chiudere le frasi con una bestemmia. Fisso l’angolo sinistro delle sue labbra, dove si è accumulata una schiumetta biancastra. Mi sbraccio per sparpagliare la nebbia acquosa che esce dalle sue narici e che riempie l’abitacolo e che la fa assomigliare a un drago con la bronchite – tossisce: coff coff. Io guardo quell’angolo e tutto ciò che vorrei fare adesso è baciarlo, vorrei raschiare quel grumo di bava con la mia lingua e slacciare quell’ultimo bottone della camicetta che aveva voluto ostinatamente agganciare. Ma, per l’appunto, io non sono bravo in questo genere di cose. E però mi balza alla mente quel ragionamento niente male che da sempre mi risparmia certe seccature: che cos’è quest’ammasso carnoso – fatto bene, va detto – a cui per mera comodità pratica è stato associato il nome di Eva se non un una finzione algoritmica che per un giro di scalogna è venuto a combaciare con la mia? Mi balocco a figurarmi Eva come un insieme di calcoli e formule, di somme binarie e, che so, radici, potenze, ics e ipsilon. Quale male, quale torto, quale sgarbo potrei mai fare a una forma siffatta? Mi concentro, chiudo gli occhi. Li riapro. Adesso la vedo. Eureka. Eva, è evidente, non esiste se non in questo spazio matematico creato apposta per noi. Allora, confidando nel mio slancio di saggezza, mi sporgo verso di lei e bacio la mia Eva immaginaria. Assaggio la sua bocca, ha un sapore delizioso e con la lingua, ormai mi sono fissato, cerco l’angolo sinistro delle sue labbra. Eva ci sta, lascia cadere la sigaretta elettronica sul tappetino e con una mano mi accarezza il collo, l’orecchio, i capelli, mentre con l’altra mi slaccia la cintura dei pantaloni – ci riesce con una mossa sola – e la infila nelle mutande e inizia a–– aspetta, e questo che vuole? Dico questo qui dietro, che sfanala senza pietà, che vuole? Proprio adesso? Ah, certo, mi sono parcheggiato davanti al cancello di casa sua. Mi stacco da Eva, sento il suo rossetto pastoso tutt’intorno alla mia bocca, metto in moto e ingrano la retromarcia ma niente, la macchina non vuole saperne e continua ad abbagliare, ad accecarmi dallo specchietto retrovisore. Indietreggio sfidando i colpi luminosi, mi faccio vicino al cofano ma la macchina è ancora lì che sfanala, e non riesco a vedere attraverso il parabrezza perché la luce mi sta bruciando la retina, suono un colpo di clacson ma la macchina è ancora lì – adesso però ha rotto i coglioni questo. Due, tre, quattro colpi di clacson ma questa dannata macchina non si sposta, continua a infierire contro di me con i suoi fari, allora tiro il freno a mano e scendo. – Che abbiamo deciso? – Sono davanti al finestrino, dietro il quale un signore sulla sessantina si sta accanendo contro la leva degli abbaglianti e non sembra avermi notato. Busso al vetro, – Ma che cazzo sta facendo? – dico. Il finestrino si abbassa. Eva, intanto, mi sono di nuovo perso la frazione di esistenza in cui si è avvicinata a me. – Si vuole spostare o no? – ringhio. L’uomo sorride e io penso che quel sorriso l’ho già visto, anzi, lo sto vedendo in questo momento perché quando mi volto su di Eva in cerca di un sostegno me lo ritrovo disegnato nel suo volto, quel sorriso, un sorriso palesemente ereditato dall’uomo che ho appena insultato. E infatti: – Ciao pa’ – dice Eva. L’uomo non fa caso nemmeno a sua figlia, ma lancia uno sguardo a me, alla mia persona, alla mia fisicità, non ha alcun interesse a penetrarmi, il suo sguardo, ma solo a raccogliere informazioni fenotipiche, tipo la mia bocca impiastricciata di rossetto, i miei capelli scanzonati e, dulcis in fundo, la mia cintura che dondola sotto i suoi occhi. Di nuovo quel sorriso. – Primo appuntamento e già ti ha abbassato i pantaloni? – fa. Poi ruota il collo verso il sedile posteriore dove siede una donna che non avevo mica visto, quindi torna su di me e prorompe in una risata grassa, da tabagista, mentre col pollice punta dietro le sue spalle: – Tutta sua madre! – Infine ecco che ci si mette anche Eva, che lancia una ridente occhiata al babbo e dice: – L’avevo capito io, che non era buono a una sega questo qua. (Segue una pacca sulla spalla: pat pat). E allora io, che m’era presa brutta con la storiella della messinscena matematica ed ero giunto alla nullificazione e alla mortificazione del mio stesso essere nel mondo, ridotto a formula opto per il libero sfogo dei miei umori, ovvero prendo a urlare forte, col diavolo in corpo, in una scala sinfonica orripilante. Poi mi rifilo un ceffone in viso, le unghie che mi graffiano le guance, tiro una testata sulla macchina del babbo e, sanguinante in volto, filo via con la mia macchina grattugiando lo specchietto sulla fiancata dell’auto patronale, ma senza prendere troppo sul serio la faccenda. La mia porca figura l’ho fatta anche io, stasera, penso.
    Rincaso stanco morto. Non ho la forza, né la voglia di fare niente. Mi lavo veloce, mi fumo una sigaretta veloce – l’ultima – e mi metto sotto le coperte. Ho la fronte e le guance sanguinanti, ma non ricordo bene né perché né per come mi sia fatto male. La cosa è tanto più conturbante se penso che Eva non esiste, che la seratina con lei non è mai esistita, che il papà sornione e la mamma baldracca entrati in gioco nel terzo atto erano solo la risultante di una combinatoria rimasta sospesa, incalcolata. Mi disinfetto, blocco l’emorragia e torno sul letto. Sono sereno. Prima di dormire do una controllatina al mio profilo Tinder. Il giochino destra sinistra destra sinistra è irresistibile, e mi muovo tra la sua fauna con grazia. Lucrezia, Alvin, Gabrielle, UgoTrans. Poi c’è Marzia. È bellissima. Sento di amarla. La sposto a destra. È MATCH!

    ***

    L’autore:
    Gabriele Orsi è nato a Roma nel 1991, dove ha studiato Lettere classiche e Filologia moderna. Ha pubblicato un romanzo, Ali di piombo (Armando Curcio Editore, 2016), e una biografia, A mani nude (Ultra Edizioni, 2017). Attualmente insegna lettere in un liceo di Roma.

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