Funzione Paesaggio
di Martino Pinna
illustrazione di Michele Rota
Ero arrivato ormai a metà sentiero, dove per un attimo la salita dà una tregua e per qualche metro c’è un breve rettilineo in piano, quando l’ho incontrato. Come sempre vicino all’albero di mele, scendeva a gran passo dalla collina, con la fronte sudata, la camicia aperta fino a metà petto e le maniche arrotolate. “Ciao Carlo, come va il ginocchio oggi?”. Era la domanda che gli facevo ogni mattina. “Oh, male come sempre! Ma cosa vuoi, alla mia età non mi posso lamentare”. In effetti era ben messo, per essere un settantenne, forse settantacinquenne. “È peggio in discesa, in salita non mi dà fastidio”. Anche questa frase veniva ripetuta ogni mattina mentre io salivo e lui scendeva. “A casa come va?” mi chiese. “Tutto bene, solite cose”. “Sembra che sia una bella giornata di sole” disse, “proprio una giornata perfetta”. Scandì le ultime parole più lentamente, come distratto. Notai che guardava alle mie spalle, verso l’albero di mele a bordo strada. Mi voltai a guardare anche io. “Cosa c’è?” chiesi. “Mi sembra che l’albero sia cambiato” rispose. “In che senso cambiato?”. “Rispetto a ieri, è diverso, guardalo”. Lo guardai: era vero, c’era qualcosa di diverso. Vedevo quell’albero tutte le mattine durante la passeggiata in collina, ma di solito con la coda dell’occhio, senza dargli importanza. Nelle ultime settimane gli dedicavo qualche secondo in più perché le mele iniziavano ad apparire: tra poco sarebbero state pronte da raccogliere. Di solito mi piaceva raccoglierne un paio al ritorno, mentre scendevo; una la mangiavo camminando, una la conservavo per mia moglie. “Hai ragione… non saprei dire esattamente cos’ha di diverso ma…”. “È cambiato” mi interruppe Carlo, che non aveva mai smesso di fissare l’albero. “Forse la disposizione dei rami, non so” aggiunse. “Ha sicuramente qualcosa di diverso”. Poi si asciugò il sudore dalla fronte con l’avambraccio e guardò il Paesaggio. “Ci sono anche altre cose che cambiano, l’hai notato? Colori, posizioni, a volte è un certo tipo di… profondità. Non so se mi capisci”. Ero senza parole, non sapevo cosa dire. Questa non me l’aspettavo. Decisi di non mostrare lo stupore per vedere dove andava a parare. “Sì, l’ho notato anche io. Eppure ormai ci siamo abituati, no?”. Non rispose. Continuò a scrutare l’orizzonte e il paesaggio intorno a noi, le colline e la vallata sotto, il bosco, come alla ricerca di altri particolari da farmi notare. “È sempre primavera… una specie di primavera estiva. Fiori e frutti quasi in contemporanea e gli alberi non perdono mai le foglie, è strano” concluse meditabondo. Ma perché mi diceva queste cose? Decisi di interrompere la conversazione. “Beh, io continuo Carlo, altrimenti i muscoli si freddano e poi ripartire in salita è più dura!”. “Ma va, tu sei giovane! Scommetto che potresti fare questa strada di corsa!”. “Qualche anno fa, forse. Ora mi accontento di una passeggiata. A domani!”. “A domani!”. Lo vidi allontanarsi, verso valle, e ripresi a salire.
Cosa c’era di diverso oggi? Mentre salivo mi guardavo intorno: era vero, ormai mi ero abituato al Paesaggio. A ogni elemento cangiante, a ogni stranezza mai troppo strana, solo leggermente diversa, a volte in modi impercettibili. Ma da qualche tempo avevano iniziato a manifestarsi cambiamenti radicali. Non solo alberi che mutavano da un giorno all’altro, ma anche fenomeni più eclatanti. Solo tre giorni prima mia moglie mi aveva chiamato allarmata in veranda. Nel nostro giardino c’era un cervo. E da queste parti non ci sono mai stati cervi. Com’era possibile? Un errore del Paesaggio? E ora Carlo, con quelle strane osservazioni. Arrivato in cima continuai a guardarmi intorno; di solito sostavo qualche minuto, facevo un po’ di stretching alle gambe, respiravo e tornavo giù; ma stavolta feci immediatamente dietrofront per tornare a casa.
Carlo non aveva mai cambiato conversazione, mai. Non conoscevo nemmeno il suo vero nome, probabilmente nessuno, essendo una parte del Paesaggio. Si era adattato al nome che gli avevo dato io in una delle prime conversazioni. Non l’avevo mai visto, avevo capito quasi da subito che era frutto del Paesaggio, così alla terza o quarta volta che l’avevo incontrato l’avevo chiamato Carlo. Da lì la conversazione si era come stabilizzata: io gli chiedevo del ginocchio; lui mi rispondeva che era peggio in discesa; poi mi chiedeva come andava a casa, e di solito concludeva dicendomi di salutargli mia moglie. Oggi era andata in modo completamente diverso e mi aveva fatto notare alcune anomalie del Paesaggio.
Non l’avevo mai visto salire, perché non saliva mai. Non so cosa accadesse una volta arrivato a valle, non l’ho mai seguito. So solo che lui scendeva e basta. Un paio di volte ero uscito mezz’ora prima del solito, e l’avevo comunque incontrato vicino all’albero di mele, mentre scendeva. Erano forse sei o sette mesi che appariva, sempre uguale, con la stessa camicia con le maniche arrotolate, i baffi bianchi, la pelle abbronzata, i pantaloncini corti con le gambe piuttosto muscolose per uno della sua età, e la fronte sudata. Eppure oggi aveva notato che l’albero era cambiato e aveva accennato ad altri cambiamenti nel Paesaggio. Ma egli stesso era parte del Paesaggio, una sua manifestazione. Era il Paesaggio che voleva comunicarmi qualcosa, forse era una sorta di test? Non capivo. Arrivato di nuovo al punto dell’albero di mele notai che erano cresciute: erano quasi pronte per essere raccolte. Era passata mezz’ora, forse meno. Non le presi, tornai a casa senza fermarmi.
“Come sta quello che tu chiami Carlo?” chiese mia moglie. Finii di bere un bicchiere d’acqua e risposi. “Un po’ troppo bene direi”. “In che senso? Non dirmi che oggi non si è lamentato del ginocchio”. “Sì, all’inizio sì. Ma poi mi ha detto delle cose che non aveva mai detto prima. Credo che il Paesaggio stia facendo qualcosa…”. “In che senso?”. “Non lo so. Sono un po’ confuso. Le mele comunque sono pronte”. “Ah bene, è la terza volta questo mese. Devo dire che questa è la parte che mi piace di più di questa situazione. C’è sempre frutta. Ma… non le hai raccolte!”. “No, ero distratto dalla conversazione con Carlo… le prenderò domani magari”. Mentii: in realtà ero spaventato da quelle mele, dall’intera situazione. È vero, eravamo abituati. Molti altri avevano lasciato la zona immediatamente, quando il Paesaggio aveva iniziato a manifestarsi, un paio d’anni fa. Era qualcosa di indefinibile. Non era successo dal giorno alla notte, ma lentamente, all’inizio con dei cambiamenti di prospettiva, di profondità, esattamente come mi aveva fatto notare Carlo. Qualcosa di difficile da spiegare. Poi con strane apparizioni, colline mai viste, che poi cambiavano colori nel giro di pochi giorni e a volte sparivano, mutazioni a volte impercettibili, a volte decisamente bizzarre. Vasti campi arati in lontananza, dove c’era sempre stato il bosco, e dove non c’era nessuno ad ararli. Oppure una palma tra gli olmi e le querce, totalmente fuori luogo e sparita il giorno dopo. Si riempì di farfalle, ovunque, a tutte le ore. I verdi delle piante cambiavano, non come sempre, non in base alla luce, che era tutti i giorni la stessa, quella di fine primavera e di metà estate, più o meno del tardo pomeriggio. Certi alberi, è difficile da spiegare ma… certi alberi a volte erano troppo verdi, o di una verdità strana. Forse troppo vivida? Non saprei spiegarlo. Poi era apparso Carlo. A volte animali, come il cervo, o alcuni cavalli che vedevamo correre liberi a valle, ma una volta lì, non c’erano, né c’era traccia del loro passaggio. Era diventato impossibile distinguere tra qualcosa che c’era sempre stato e qualcosa creata dal Paesaggio, perché era tutto così… reale. Molti amici e vicini di casa non hanno resistito a vivere lì e si sono trasferiti, chi immediatamente, alle prime avvisaglie, chi dopo qualche mese. Io abitavo in quella casa da quando ero nato e, in accordo con mia moglie, decidemmo di restare. Ero calmo, ma la conversazione con Carlo mi aveva sconvolto. Non volevo spaventare troppo mia moglie, ma era un cambiamento insolito, più della palma, più del cervo, più dei cavalli e di mille altri particolari a cui ormai eravamo abituati. Un essere umano, o qualsiasi cosa fosse Carlo, mi aveva fatto notare le stesse stranezze di cui lui stesso faceva parte. Come se avesse preso coscienza del Paesaggio. Lui era il Paesaggio, o almeno una parte, una sua manifestazione, così come gli alberi, le ombre, le farfalle. Pensai di nuovo che forse era lo stesso Paesaggio a volermi dire qualcosa, a provocarmi, a smuovermi.
Andai fuori, in veranda, e fissai le colline all’orizzonte. Erano lontane e vicine allo stesso tempo. Se avessi allungato la mano, avrei sentito le foglie di quegli alberi, le nervature sui miei polpastrelli. Potevo capire che abituarsi a cose così, per gli altri, fosse difficile, forse impossibile. Eppure io e mia moglie avevamo accettato di vivere così. Dopotutto all’interno della casa non si verificava nessuna anomalia. Tutto avveniva all’esterno. Il Paesaggio imparava, o almeno questo è quello che pensavo io: all’inizio era più semplice e grezzo nelle sue manifestazioni, poi si era fatto sempre più raffinato. Errori come la palma che appare e scompare non si erano più verificati. Sembrava piuttosto volerci accontentare non mutando mai, con una temperatura sempre simile, compresa fra i 20 e 26 gradi, la frutta e la verdura maturava velocemente, gli alberi sempre verdi, anche se non sempre uguali. Io e mia moglie avevamo sempre detto che quel posto era meraviglioso, ma che sarebbe stato più bello se ci fosse stato un fiume, un lago, un corso d’acqua vicino. Un giorno mi ero svegliato sentendo lo scrosciare dell’acqua. In lontananza, tra gli alberi, avevo visto un torrente che non c’era mai stato. Mia moglie non voleva che ci andassi, all’inizio non ci fidavamo di queste manifestazioni; ma io non avevo resistito, ero andato a vedere. Ed era così: era apparso un torrente. Avevo toccato l’acqua, era vera. Mi ero bagnato la faccia, ci avevo immerso i piedi. “Se dovesse piovere potrebbe essere pericoloso… un’alluvione potrebbe far crollare la collina” disse mia moglie. “Ma non piove mai, lo sai, queste piante non hanno bisogno d’acqua. Né gli uccelli, né i vari animali, o quello che sono”. “Non lo so, quel torrente mi fa comunque paura”. Due ore dopo, non c’era più. Tornai sul posto e non c’era alcun segno del torrente dove avevo immerso i piedi. Il Paesaggio sembrava ascoltarci e imparare, nel tentativo forse di compiacerci e non spaventarci.
Quando il Paesaggio si era manifestato per la prima volta, con quei primi iniziali cambiamenti di profondità, di luce e di colore, e alcune piccole anomalie spaziali, erano venuti alcuni studiosi ad esaminarlo. Alcuni erano scomparsi, uno dei motivi per cui le persone avevano paura. Ma io penso che si fossero semplicemente persi perché non conoscevano il posto, che io conoscevo come le mie tasche da quando ero piccolo. O forse, come teorizzavano alcuni, il Paesaggio li aveva respinti: forse non voleva essere studiato, ma solo vissuto. Forse aveva modificato i sentieri, spostato gli alberi, le rocce, in modo che gli studiosi perdessero l’orientamento. Magari erano ancora lì a girare cercando di tornare indietro, come in un labirinto. Il tempo non era lo stesso, nel Paesaggio. I primi studiosi erano arrivati quasi subito, ormai due anni fa; ma per loro potevano benissimo essere passati cinque minuti. Queste, ovviamente, erano solo mie congetture. Non avevo idea di come funzionasse, né di cosa fosse. Era stata mandata una squadra di soccorso: si erano inoltrati nella valle boscosa tra una collina e l’altra verso nord, e dopo alcune ore erano spuntati a sud, da dove erano venuti, convinti di essere appena partiti. Avevano provato a sorvolare l’area con un elicottero, ma non era stato notato nulla di strano.
Nelle mie passeggiate non avevo mai incontrato gli studiosi, né altre persone, a parte Carlo. Mi sedetti in veranda e guardai nel punto più lontano, tra due colline. Il sudore della camminata colava ancora dal collo lungo la schiena, e quest’immagine, il rivolo del mio sudore che si faceva strada sotto la maglietta, sulla pelle, apparve proprio nel punto che fissavo. Una cascata. O almeno così mi sembrava da lontano. Era come se la sensazione che io provavo nel mio corpo si fosse proiettata nel Paesaggio in forma di cascata. Dissi a mia moglie che uscivo un attimo. “Ma come, di nuovo? Non lo fai mai”. “Voglio solo controllare una cosa”. Puntai verso quella che mi sembrava una cascata: a occhio, ci avrei messo un paio d’ore per arrivare là, ma dopo quindici minuti di cammino sentivo già il forte rumore dell’acqua. Era una cascata bellissima, sarà stata alta almeno trenta metri, forse di più. Toccai l’acqua: era come me l’aspettavo, limpida, fresca, reale. Non c’era alcuna differenza tra questa pozza d’acqua, questa cascata, e tante altre che avevo visto nella mia vita, fuori dal Paesaggio. Ma questa la percepivo come diversa. Certo, il fatto che fino a mezz’ora prima non esistesse non aiutava a renderla famigliare.
Mi tolsi le scarpe e la maglietta e mi tuffai senza paura. Guardai in alto: era fantastica. Da sopra si irradiava nell’aria una strana luce bianca del tutto fuori posto visto che il sole, in quel momento, era in un’altra posizione. Mi avvicinai al punto in cui l’acqua cadeva nella pozza, esattamente sotto la cascata. Il getto era molto violento, il rumore molto forte. Cominciai ad arrampicarmi: mi aggrappavo all’acqua e salivo, come su una corda, come su una parete rocciosa. L’acqua continuava a scorrere, ai miei occhi totalmente liquida, ma io riuscivo ad afferrarla e a salire. Giunto a metà guardai giù, non avevo paura dell’altezza, sapevo che comunque, se fossi caduto, non sarebbe successo niente. Presi fiato un attimo e continuai a salire. Arrivai in cima. Venni accecato dalla strana luce bianca. Non veniva da nessuna direzione precisa, non c’era una fonte. E non c’era nemmeno un torrente, solo la cascata. L’acqua iniziava in un punto preciso e da lì precipitava giù. Ma da quel punto in avanti c’erano solo erba e sassi e le solite farfalle che svolazzavano ovunque. L’acqua non sgorgava nemmeno da sottoterra. Sedetti qualche minuto per riposarmi e per strizzare un po’ i pantaloncini, dando le spalle alla luce perché mi dava fastidio agli occhi. Da là sopra vedevo in lontananza la mia casa. Sembrava lontanissima, ma in quel momento distava quindici minuti a piedi dalla cascata; al ritorno non era da escludere che ci avrei messo di più, o forse di meno. Il Paesaggio aveva dei punti non completi, non definiti, questo l’avevo già scoperto quando ero andato a cercare i cavalli. Ma sapevo anche che si adattava, imparava, cercava di compiacermi e di riempire quegli spazi, in modo da non farmi sentire a disagio. O almeno così percepivo io. Forse questo era il senso delle parole di Carlo, farmi notare i cambiamenti. Forse era il Paesaggio che voleva un riscontro da me, sapere se mi ero accorto degli sforzi che compieva per noi. Non avevo idea di cosa fare. Avrei dovuto ringraziarlo? La maggior parte delle persone erano rimaste terrorizzate da tutto questo, o indifferenti e infastidite, come mia moglie. Io ero curioso.
Mi alzai, decisi di andare verso la luce, ma non avendo un riferimento preciso, capii che bastava andare in una direzione qualsiasi. Era uno di quei punti del Paesaggio che si manifestavano solo in quel momento: avevo la sensazione che, tre o quattro metri davanti a me, non ci fosse niente, tutto si rivelava solo nel momento in cui io ci mettevo piede. Era bello, ovviamente. Nel Paesaggio era sempre tutto bello. Guardai gli alberi intorno a me, gli arbusti, i cespugli, era tutto perfetto. Mi voltai indietro: erano apparsi dei fiori blu assenti fino a tre secondi prima. E quando mi voltai, quei fiori erano anche lì, lungo un sentiero appena creato. Il Paesaggio mi stava costruendo una strada, una direzione, e la luce bianca spariva gradatamente. Seguii il sentiero, il rumore dell’acqua ormai non si sentiva più, per quanto ne sapessi forse anche la cascata era già sparita. Arrivai a una grossa roccia in mezzo al prato di fiori blu. Era enorme, bianca, grande quanto una casa, liscia, non avrei saputo dire che tipo di pietra fosse, probabilmente nessuna di quelle da noi conosciute. Dovevo salirci sopra? Ci girai intorno, la toccai, era fredda, dura. Mi convinsi che il Paesaggio l’aveva messa per fermarmi: giocava con la mia curiosità, sapeva che avrei visto la roccia come un punto d’arrivo, il punto B dopo il punto A, dove mi sarei fermato e forse tornato indietro. “No, non salirò su questa roccia” dissi a voce alta. Dalla pietra iniziarono ad apparire dei puntini neri, prima piccoli, poi più grandi, spuntavano fuori allungandosi verso l’esterno. In meno di un minuto vidi crescere dei rami dalla roccia, poi le foglie, i germogli, i fiori, e infine le mele. La roccia fu ricoperta improvvisamente dalla vegetazione. A questo punto era chiaro: il Paesaggio mi voleva fermare e le stava provando tutte. Non toccai le mele, mi misi a ridere, e a quel punto apparve Carlo. “Sono già belle mature” disse. Raggelai, ma non lo diedi a vedere. Dopo due secondi di silenzio decisi di parlare come se niente fosse. “Ciao Carlo, come va il ginocchio oggi?” gli chiesi. “Oh, male come sempre”. Si appoggiò alla roccia e si asciugò la fronte sudata con l’avambraccio. “In discesa è dura, eh?” dissi. “Sì, per il mio ginocchio…” – non concluse la frase. “Dove stai andando?” mi chiese. “Non lo so. Tu dove stai andando?”. “Oh, sto tornando a casa”. Prese una delle mele, la staccò dal ramo e gli diede un morso. “Uhm, buona!”. Non sapevo cosa fare. “E dov’è casa tua Carlo?” gli chiesi. “Come sarebbe dov’è, giù a valle, lo sai”. “Ah, giusto. E perché io non ti ho mai visto salire, ma sempre e solo scendere?”. “Perché abbiamo orari diversi”. “Giusto” dissi. “C’è qualche motivo che ti farebbe tornare indietro, verso casa?” chiese. Non risposi subito, ebbi la sensazione che, in qualche modo, fosse il Paesaggio a parlarmi, e non quella specie di comparsa del solito Carlo, il vecchio che si tiene in forma facendo ogni mattina un passeggiata in collina. Il Paesaggio stava usando il suo aspetto, a me famigliare, per comunicare con me, in qualche modo. “Certo, a casa c’è mia moglie, ho tanti motivi per tornare” risposi calmo. Carlo buttò a terra il torsolo della mela e si stiracchiò. “Bene, allora puoi prendere il sentiero che hai fatto all’andata e tornare a casa, sarà ora di pranzo ormai”. “Di là, verso la cascata dici?”. “Credo che la cascata non ci sia più”. “Carlo, una roccia non ha i rami, una roccia non è un albero di mele”. “Uhm”. Sorrise, sembrava riflettere. “Quello che dici è vero, normalmente non è così. Ma pensavo che ti piacesse”. “Pensavi… chi? Tu?”. Le mele marcirono improvvisamente, i rami e le foglie si seccarono e si staccarono dalla roccia, non lasciando alcuna traccia su di essa. “Così ti piace di più?”. “Così è più normale, è una grossa roccia. Abbastanza insolita comunque” risposi, “ma normale”. “Quindi adesso tornerai a casa?”. “Tu vuoi che torni a casa?”. Rise. “Amico mio, tu puoi fare quello che vuoi, non conta ciò che voglio io”. “Che cos’è questa cosa? Perché il Paesaggio un giorno è cambiato? Cosa siete?”. “Bella domanda!” rispose Carlo asciugandosi la fronte. “Oggi è proprio una bella giornata, non pensi?”. “Sì, sono sempre belle giornate. Non c’è una brutta giornata da due anni. Cosa succede se vado oltre la roccia?”. “Niente, forse ci sarà un’altra roccia, o un’altra cascata, o forse spunterai sulla tua collina, o dietro casa, o nei campi arati. Tu cosa vorresti?”. Non sapevo rispondere alla domanda. Dissi solo: “Tornare a casa da mia moglie”. “Bene, allora segui il sentiero. Ci vedremo domattina, come sempre”.
Mi resi conto che era quello che volevo davvero: tornare a casa. Mi ero spinto troppo oltre, ero spaventato. Incuriosito, senza dubbio, ma anche spaventato. “Ciao Carlo, ti auguro una buona giornata” dissi. Tornai indietro verso la cascata, e un attimo dopo essermi voltato Carlo non c’era più. Camminai tra i fiori blu per due minuti circa, e arrivai nel punto dove prima c’era la cascata, che adesso non c’era più. Recuperai i vestiti, mi misi le scarpe e mi guardai intorno. Nessuna traccia della cascata. Ora c’era una leggera discesa erbosa e poi… la veranda di casa mia. Non avevo fatto più di dieci passi. Mi guardai indietro, le colline dove avevo scalato l’acqua apparivano lontanissime, ma io ero là, di fronte alla porta della cucina. “Dove sei stato?” chiese mia moglie. “Da nessuna parte” risposi. E sapevo di non aver mentito.
***
L’autore
Martino Pinna è nato a Oristano nel 1984. Dal 2001 è fondatore e autore di Trascendentale e dal 2012 è il curatore di Sardegna Abbandonata. Oltre a numerosi racconti, sceneggiature e reportage, ha realizzato cortometraggi e documentari. Il suo sito è www.batisfera.it/martinopinna
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