La bozza

    di Giusi D’Urso
    illustrazione di Michele Rota

     

    Ancora una volta sospende la lettura, spazientito dal latrato lontano di un cane. Odia i cani e tutto ciò che lo distrae dal suo lavoro. Rileggere bozze esige silenzio, mentre a volte tutto lo distoglie. Non gli pare di avere la concentrazione particolarmente labile: è il mondo, piuttosto, a essere eccessivamente rumoroso.
    Sospira, sbatte la matita sulla scrivania e il rumore secco, legno contro legno, gli dà ragione. È rotolata giù, la matita, posizionandosi di sbieco con la punta oltre il margine di carta. La sistema parallelamente ai fogli, si alza dalla sedia e va a farsi un caffè.

    La bozza in lettura, fin qui, non lo entusiasma: appunti di viaggio romanzati, una specie di diario commentato in prima persona dall’autrice, certa Nadine F. Uno spirito di osservazione acuto, ma niente di eccezionale. È lavoro, prima finisce, prima lo pagano.
    Entrare nelle storie degli altri lo esalta raramente; sebbene, deve ammetterlo, accedervi così, da una porta accostata, gli provochi una sotterranea vibrazione. Ma sia chiaro, nessuna empatia. Anche il giudizio resta sospeso. Osserva, legge, rilegge e corregge. Tutto qui. Non sa, e nemmeno vuol sapere se le storie in cui sprofonda per ore gli cambino qualcosa dentro oppure no. I sentimenti per un correttore di bozze sono un terribile precipizio di sconsideratezza. Così gli era stato insegnato.
    Nadine F. direbbe che il suo è analfabetismo emotivo, che non sa ascoltare se stesso e che non è in grado di gestire le sue emozioni. Lui prenderebbe per buona l’osservazione, ma la cosa non gli creerebbe alcun moto d’ansia o apprensione. Appunto.

    Il bravo correttore di bozze scova gli errori come un segugio ben addestrato. Mentre ripete il suo mantra salvifico il caffè nero e schiumoso inonda il piccolo bricco della moka. Senza accorgersene digrigna i denti con uno stridore sepolto fra il brontolio del liquido e il suono immaginario della frase. Il bravo correttore di bozze scova gli errori come un segugio ben addestrato.
    Nadine F., che sta raccontando una passeggiata notturna sulla rive gauche del lungo Senna, gli ha suggerito che bisogna anche innamorarsi di ciò che si fa. Innamorarsi. Lo ha detto con quella sua leggerezza che immagina diffondere nell’aria quando sorride con i denti allineati e candidi e che rischia di rimanergli in testa per il resto della giornata. E distrarlo.
    Detesta i rumori superflui. Sono inciampi della mente, dirupi pericolosi. Sono trappole per la concentrazione. Il silenzio. Ecco quello che ci vuole per fare bene il suo lavoro.

    Rimescola il caffè evitando accuratamente il rumore del cucchiaino sui bordi della tazzina. A che serve rimescolare un caffè amaro? Il tintinnio sarebbe davvero insopportabile.

    Nadine F., che ora beve un drink con un uomo corpulento di mezza età in un locale del quartiere latino di Parigi direbbe che quella, per esempio, è una stranezza. Glielo direbbe nel suo solito modo lieve e confidenziale, che non riesce a tenerla a distanza da cose e persone.
    Quel tipo invadente e pesante la fissa mentre lei parla con un sorriso che le spalanca gli occhi. Le si è seduto troppo vicino, ha i muscoli tesi sotto la camicia, le sussurra qualcosa all’orecchio. Il modo in cui la guarda le desta apprensione. Nadine F. nasconde l’ansia nel sorriso, il labbro superiore è lucido e trema appena. Forse si sente in trappola. L’uomo della matita se ne accorge.

    Ai tempi del liceo c’era una specie di Nadine F. che si chiamava Carmen G. Aveva lo stesso modo di rendere lievi cose pesantissime. E non la dava a nessuno. Era la sua cifra: bella, intelligente, inaccessibile. Per questo i compagni la prendevano di mira. Lui no, semplicemente e in segreto la toccava mentre chiuso in bagno si faceva l’amore da solo. Gli bastava desiderarla e immaginarla sua in quell’esiguo spazio fra lavatrice e bidet, mentre sua madre sfaccendava di là sbraitando sulla radio a tutto volume. Gli altri, invece, i suoi compagni, si erano messi in testa di farle la festa. Nel vicolo dietro la scuola, solitario come nei brutti sogni, la presero e la bloccarono per terra. In quattro. In cinque, contando anche lo spettatore silenzioso. La mano sulla bocca non era stata sufficiente e qualcuno aveva zittito Carmen G. infilandole una maglietta arrotolata fra i denti. Il resto andò più o meno come nei fotogrammi che si era montato in testa nello spazio angusto fra lavatrice e bidet. Lui guardò e basta. E ogni cosa tacque. Fu come se tutte le ragioni del mondo e addirittura il mondo stesso, buono e cattivo, avessero dimorato da sempre nella penombra sudicia di quel vicolo, fra le urla soffocate di Carmen.

    Regola numero uno: il correttore di bozze fa il correttore di bozze.

    Nadine F. fatica a tenere a bada quella mano sudata che la fruga con pervicacia fra le cosce. Ha convinto l’uomo a uscire in strada. L’uomo è alticcio, ride sguaiato e scomposto. Le sta addosso e la palpa ovunque stropicciandole il vestito leggero. Cerca di tenerlo a distanza mentre si guarda intorno. Non c’è nessuno. A un tratto si divincola e si allontana correndo. Lui le corre dietro. Il rumore dei passi sull’asfalto riecheggia e si diffonde nei vicoli laterali. Lei si gira indietro, l’uomo ansimando avanza, Nadine cerca di affrettare il passo mentre si pente di avergli dato spago. Ormai sta correndo. Ha paura, sente il sudore sulla fronte e un brivido sulla nuca. Guarda verso l’alto, verso quello con la matita in mano e grida aiuto, ma lui è distratto da qualcosa e passa oltre.
    Continua a correre e le scoppia il cuore. L’altro sta per raggiungerla urlandole sconcezze.

    Finalmente la ragazza vede da lontano un gruppo di studenti allegri rientrare a casa dopo qualche bagordo. Urla, Nadine F. Il gruppo la raggiunge e capisce al volo che cosa sta accadendo.
    L’uomo corpulento, preso a spintoni, cade a terra pesantemente e un gemito gli sfugge fra bestemmie e risate. Nadine F. resta pietrificata in disparte. Ha gli occhi spalancati e fissi. La corsa e la paura le hanno mozzato i respiri. Qualcuno la prende per mano. Mentre si allontana vede per terra una piccola pozza di sangue accanto all’uomo accartocciato su se stesso.

    In strada adesso non c’è più alcun rumore, né latrati di cani in lontananza. Finalmente, il silenzio.
    La pagina successiva è vuota.
    Lui adagia la bozza sul tavolo, si passa le mani fra i capelli e riprende da capo e di gran lena. Un bravo correttore di bozze, si sa, ha bisogno di assoluto silenzio.

    ***

    L’autrice:
    Giusi D’Urso è biologa nutrizionista, vive a Pisa. Ha pubblicato racconti e testi liberi su Storie a catinelle e Fernweh. La rivista Crack ha scelto un suo racconto per il numero speciale in collaborazione con Play with food – la scena del cibo e Torino Fringe Festival. Si allena e sperimenta sul suo blog di scrittura #secondapelle

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