La macchina selvaggia

    di Andrea Bricchi
    illustrazione di Michele Rota

     

    Cut word lines–Cut music lines–Smash the control images–Smash the control machine–. 
    William S. Burroughs, «The Soft Machine»

     

    Ero andato da lei per intervistarla riguardo al sesso sotto effetto di droghe, un argomento pruriginoso di sicura presa sui lettori della rivista per la quale scrivevo. In giro si diceva che fosse una grande esperta al riguardo. Ne avrei ricavato un articolo buttato giù nel mio solito stile scanzonato, con foto sue, del suo appartamento, delle sue pipette, dei suoi quadri. Un bel colpo per un giovane fotoreporter quale ero io all’epoca.

    Inizialmente aveva sbuffato alle mie domande. Quindi la proposta. Per provocarmi disse che l’unico modo per scrivere qualcosa di serio sul tema era provarlo sulla mia pelle. Prendemmo gli acidi: nel giro di qualche minuto non avevamo più i vestiti indosso.
    «Dopo potrai chiedermi tutto quello che vorrai. Ma prima scopami, stronzetto.»

    Era così, Tea. Una quarantenne sboccata, ancora affascinante, sempre fumata. Decisamente una scoppiata. Aveva questa teoria per cui la nostra vera vita cosciente è quella che raggiungiamo nei sogni o sotto stupefacenti. Avrei trovato le risposte che cercavo – mi diceva – nelle sue movenze, nel mio corpo, nelle percezioni sensoriali distorte, nelle deviazioni delle immagini, nel ritagliare e riassemblare queste con l’aiuto della chimica e del sesso: due strumenti che già da soli permettono di abiurare al controllo, ma che uniti aprono la strada all’inaudito remissaggio delle membra, dei pensieri, delle sensazioni. Era l’unico modo per fondere le menti oltre che i corpi, così come per viaggiare nel futuro, nell’impossibile.

    «Credi di potercela fare? Riuscirai ad allargare la tua intelligenza?»
    La afferrai per gli esili polsi. Pulsavano di lubricità e di droga. Con delicatezza feci posare quella leggiadra figuretta, quella leggera fichetta, sul divano, inebriato dall’afrore lanuginoso che ne emanava. 
    Fermo, arso dagli effetti dello stupefacente che prendevano piede, più languido di un Aschenbach, più contemplativo di un Buddha, seguii con lo sguardo annebbiato la linea morbida delle sue forme. La baciai, la accarezzai.
    Un dito dopo l’altro, entrai dentro di lei. 
    Tea raccolse un tacco di vernice nera posato vicino alla poltrona per farmelo succhiare.
    «Mostrami la femmina che è in te» mi disse ficcandomi il tacco in gola.
    Sentivo i miei sensi permutarsi, i miei movimenti farsi più goffi per l’intensificarsi degli effetti dell’acido. Un enorme paio di forbici tagliò la superficie del reale. Ci spostammo per andarci a rovesciare sul letto bianco. La mia mano scalò il monte di Venere. Lei mi immobilizzò con i suoi mille tentacoli e le sue ventose ingorde. I suoi capelli erano lisci fluidi di madreperla. La sua lingua, madrepora.
    Sui nostri volti campeggiava l’espressione vuota dei sonnambuli. Eravamo due testi ridotti in frammenti e fusi insieme a formarne uno solo. Macchine morbide infine liberate, estraniate, dimentiche di quanto ruotava intorno. Non pensavo più a ciò che facevo: lo facevo e basta.

    Mi accorsi che la camera da letto era affollata di suoi doppioni, doppioni di Tea. Nella vagina uno di questi si inseriva un dildo d’alabastro attraversato da onde di luce verde elettrico. Un’altra Tea si rivestiva frettolosamente. Un’altra, seduta davanti a un tavolinetto di vimini, si riempiva la pipetta di gangia. Di qua una rideva, di là una si disperava. Un’altra ancora mi guardava con severità. Alcuni suoi doppi la rappresentavano in diverse età della vita: la Tea di sedici, di trenta, di cinquant’anni…
    Quella originale stava ancora là attaccata a me, stesa sul letto, con la pelle morbidamente dorata, a svuotarsi la mente d’ogni pensiero, il volto incorniciato dalla criniera di capelli sparsi, la bocca vezzosa. Era tutta un gemito. Le tirai un capezzolo: estrassi, così facendo, un cassetto pieno di ritagli di immagini e pagine di quotidiani sminuzzate in mille pezzi.
    Tornai a guardarla in volto. Aveva occhi da uomo, simili ai miei – in ogni caso non gli occhi che ricordavo. Guardai meglio: mi accorsi che erano proprio i miei. Lei era diventata me, e viceversa. Le donne tutt’intorno mi indicarono lei, cioè me stesso. Fui colto da un’improvvisa angoscia. Non capivo. Ma dopotutto che c’era da capire?
    «Scopa te stesso!» gridarono in coro. «Vieni! Vieni dentro di te!»
    «O-ora?» balbettai.
    «Vieni dentro al tuo cuore e dentro al suo.»
    Quando tornai a guardare Tea, fui rassicurato dal fatto che aveva riacquistato il suo volto, un volto pallido e dolcemente ansimante.
    «Più forte!» disse non appena mi sentì esitare.
    Dalle sue palpebre sgorgavano lacrime di biondo miele. Ficcò allora il suo sguardo nel mio. I suoi occhi erano intrisi di consapevolezza e rigore.
    «Non dirmi niente di greve, non sforzarti di essere razionale» mi ordinò, e la sua voce era come la brezza su una battigia che subisce i colpi di una passione liquida, era un profumo emanato da una rosa di carne.
    Mi afferrò per il pene quasi fosse la maniglia di una porta. Il mio corpo si aprì ad accoglierla e lei vi entrò. Dalla libreria caddero tutti i volumi. Scintille di elettroni impazziti nell’aria. Un maremoto dentro di me.
    «Sei pieno» mi disse «di un buio caldo, morbido.»

    In un certo senso, il sesso era l’unica cosa che ci tratteneva nella realtà, ma ne era trasfigurato, ci trasformavamo, la plasmavamo, come se la realtà fosse il sesso e la fantasia fosse il plasma che trasforma e trasfigura, come se le cose ci trattenessero, come se realizzassimo il sesso nella trasfigurazione con una fantasia di trasformazioni plastiche, ritrovando unicità e senso, fantasticando di realtà sessuali altre, di altri sessi, di altri sensi, di altre realtà fantastiche.
    Ero sempre più incapace di pensare, di riflettere su ciò che mi stava accadendo. Eravamo ottenebrati da una fiamma severa e da un dormiveglia ipnagogico, liberatorio. Luci di seta. Nuvole seppiate sanguinanti. Fasci metallici. Insetti d’oro. Aloni screziati d’arcobaleno. Lampi di magnesio e polvere da sparo. Orgasmo di nebbia marina e fumo. Una pioggia radioattiva su gengive scarlatte. Volute spiraleggianti di sabbia. Corpi incollati in un chiarore convulso. Vortici magnetici in mezzo alle gambe. Una delicata morsa sonora ovattata. Smantellammo gli organi di controllo. Sabotammo i culti con interferenze radiofoniche. Vibrazioni rosa sull’epidermide. Melma amaranto. Sonno della Dea Scorpione. Fiamma azzurra fra sbuffi di fumo nella penombra. Scintille di crudeltà giovane lungo la schiena. Corpi parassitati da spettri elettrici. I bassoparlanti nelle teste spenti. Caligine metallica iridescente. Acqua rugginosa. Ossa illuminate di viola attraverso la carne.
    «Mi piaci» proclamò alla fine. «Adoro in te il ragazzo che vuole visibilmente addentare l’esistenza. Ora sai quello che c’è da sapere. Sai che vuol dire farsi scopare dalla droga. Sai che la realtà è una ragnatela di cristallo. Nella libertà andiamo inconsapevoli, sotto la bellezza stellata, attraversando la pineta verso l’alba estiva.»

    ***

    L’autore
    Insegnante di lettere, romano, ha vissuto in Francia per circa due anni per studio e lavoro. Autore di una raccolta di prose poetiche dal titolo Il cofanetto orientale (Zona), fa parte della redazione del lit-blog I libri degli altri e collabora con articoli e note critiche con diverse riviste on-line. Ha scritto racconti pubblicati, o in via di pubblicazione, su Argo, CrunchED, Spore e Morel. Attualmente sta portando a termine la stesura del suo primo romanzo.

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