Luperco
di Michele Paladino
illustrazione di Michele Rota

Arrivammo a Lupara che si era nella canicola pomeridiana. L’occhio semichiuso di Berenice delle volte aveva un carattere impersonale, fatto di strizzatine del viso, smorfie inconsuete, sebbene il suo sguardo fosse infinitamente più antico, assopito e arrugginito del mio. Un dottorando in antropologia, un’educazione che smentiva la provenienza subalterna della propria famiglia. Con eccesso di zelo e volontà imboccammo una via oscura dell’accigliata rovina. Lupara era un villaggio che si ergeva duro come un fortino medievale nell’entroterra molisano nella campagna dal colore di una lastra di rame. Al nostro arrivo, tra le mura, un florilegio di idiomi dal sapore di calce e mica, uomini raggrumati come nere tartarughe, svoltavano dai vicoli, dando l’impressione che da un momento all’altro potessero prendere il volo. Le donne dalla pelle inanellata e turgida, seguitano a sostare sulla soglia di casa. È il segno infallibile della tradizione. Fu Berenice a portarmi in quel limbo di spedizioni etnografiche, passaggi nei paesi arrugginiti e scarni di risorse umane, diceva che questo spostarsi, questo muoversi in osmosi in paesi grandi come una punta di spillo era come un’ombra dolce e protettiva. Ma una spedizione antropologica era tutta un’altra cosa; significava piegarsi, avvinghiarsi, e rannicchiarsi respirando l’odore nervoso e acre delle pietre. Come Lévi-Strauss nel Mato Grosso, seguimmo l’accordo melenso del vento, il riflesso del silenzio di Lupara. Lei lo interrogava, io confezionavo informazioni, raggomitolato ai piedi di un tenace e poroso muro.
Lupara, 23 marzo, diario di campo 1
Come quei superbi cavalieri medievali che andavano a galoppare sulle messi di grano per il puro piacere della distruzione, io e Berenice andiamo a cercare nei luoghi del dolore un dialogo, una traccia. Poco più avanti, un gruppo di uomini anziani si raduna in un punto di sole per consumare il tempo morto, appoggiati alla struttura di metallo del Monumento al Milite Ignoto. Un uomo mi guarda. Gli occhi mostrano stupore. «Forestieri?» Quanto beneficio avrà ricavato quell’uomo alla vista di me e Berenice? Dopo un cenno rapido di assenso, l’uomo dal ventre polilobato cava di tasca un astuccio da occhiali, e di qui gli occhiali e un cencio giallo: «È davvero singolare che due come voi vengano qui. Questo paese è un malato terminale. Il problema non è vostro». È un angosciante concentramento. Uno tutto eccitato cerca di raccontarci le sue tribolazioni psichiche, una signora dall’età indefinita ci sorride come se ci conoscesse da sempre, recalcitrando vecchie storie: «Una volta ho ricevuto una lettera e un mazzolino di rose, i suoi capelli biondi erano come il grano di maggio, e che bella uniforme portava» – i suoi occhi non sono chiusi del tutto, resta uno spiraglio da cui esce un luccichio fine e umido – «e ora è solo una foto una foto vecchia e mangiata che tengo riposta sulla credenza. Luigi muore ogni notte nel mio cuore.»
Ci sentimmo percorrere da un’onda leggera, facemmo sosta al bar. Una serie di whisky fatti raschiare al bancone. Berenice sorrideva sempre, io ero stanco, turbato, sentivo scricchiolare i piedi a ogni passo. Camminavamo incastrati tra i lastricati fetenti, col mio diario di campo in mano, il sudore addosso. A un tratto vidi, da una casa male illuminata e tutta scrostata, un baldacchino con al centro una testa senile medusea di suprema bellezza. Come piegati da un destino fatale, Berenice e io fummo innalzati al di sopra della materia, sbalzati nella sfera spirituale delle idee.
«Siamo vicini…»
«A cosa?»
«Non posso dedurlo con precisione, ma siamo vicini…»
Lupara, 23 marzo, diario di campo 2
Quell’uomo incontrato in precedenza viveva in un cimitero d’impero, in un pallido di riflesso della civiltà, e ora si aggirava come uno stanco lucertolone nella nuda roccia del suo paese. Il tempo passava, o piuttosto non passava, il tempo, la durata, a Lupara ha un valore effimero. La sera può scambiarsi con il giorno. La notte, al giorno. Poco cambia. Un cane nero ci guarda fraternamente, non vorrebbe passare più i suoi giorni qui. Per strada nessuna gazzarra di monelli, o carosello di giovani. È il predominio della realtà nella prospettiva interiore dell’uomo il cui profilo stanco si rivela nudo nei paesi della dismissione dalla risorsa umana. Muore il paese, muore l’uomo. La campagna è punzecchiata da piccoli orticelli su cui veglia la luna rimpicciolita del tramonto, pronta a mostrare la sua schiena d’argento.
L’uomo arriva a me, esausto. «So perché siete qui…»
Quasi il crepuscolo, e la solitudine si fece solida. I capelli selvaggi di Berenice si placano, affievoliti dal vento silenzioso. Il sinuoso tragitto della luna iniziava a bagnare con il suo riflesso le facciate delle case. Vale l’interminabile tedio notturno. Un cambiamento improvviso di temperatura, un riso, un fischio, un canto che va verso la morte. L’angoscia che nasce dalla pancia. Un vuoto gorgogliante e sazio sembrava essersi impadronito del nostro animo. I suoni dell’erranza delle ossa, passaggi di mascelle straniere. Scosse sismiche che sfollano gerarchie sacre. Si era in una esplorazione dei Campi Elisi dell’anima.
Lupara, 23 marzo, diario di campo 3
Entriamo in una chiesa spogliata. Ai piedi dei santi, nelle nicchie, si trovano piccole lucine rosse. La tonalità anemica delle statue invade il visitatore allo stato di mortificazione del luogo. Cristo, all’altare, sembra il portatore di una febbre malsana dal sapore di zolfo: Il sonno dello spirito. Improvvisa, una statua ermafrodita entra nel nostro campo visivo come il segno di un’alluvione in una antina. Berenice con un fugace sorriso si avvicina alla statua, e con violenza, bramosa di piacere, strappa dal collo nudo della Vergine, un medaglione dorato grande cinque pollici. Berenice si fa estatica, il rilievo ovale del medaglione presenta una fanciulla ermafrodita che schiaccia la Terra con un sublime piedino. La bellezza che frantuma il mondo. Berenice prende a concettare in piena ondata emotiva, la sua voce si eleva in un modo bizzarramente impersonale, una voce da santona, da medium: «Qui si vive in una liturgica teodicea della distruzione. Un luogo abietto e corrodente, ma è tra queste pietre sconcertanti, negli archi sopra alle anguste porte, nei bronzei portoni, la rappresentazione di un Dio consanguineo al Primo Uomo. È nel nostro brulichio del pensiero che si cela l’ignoto incantamento alla sua roccia. Lupara, i paesi come miraggi sospesi, dal profumo stantio di un fiore recluso in un’urna cineraria, saranno la nostra indisciplina, il nostro tramare nel buio e nelle cavità dello spirito, rovesceranno la tecnica, la sottomissione, l’atmosfera satura di oppressione».
Uscimmo fuori sulla piazza: il canto imbrigliato di una canzone napoletana languiva nell’aria trasparente della sera. E poi è il crepuscolo, le campane si moltiplicarono, si fusero, il drappo serico del tramonto anticipava la notte. Il silenzio, un tappeto velato. «Allora?»
In questo tempo, quale tempo, tutto divenne mobile assenza: usciti fuori dalle mura e recuperata l’auto, sentimmo, filtrata dai muri, una voce inesorabile e lacerata, dissolta come per incanto: il grido di chi è andato via e non è più tornato. Fuggimmo via, come per scampare a una lapidazione, con il medaglione fervido come un carbone ardente.
***
Michele Paladino è nato a Termoli il 26/2/1993. Vive in Molise, a Santa Croce Magliano (CB). Nel pieno dissesto della sua adolescenza si imbatte ne L’impero del sole di Ballard. Ha inizio la sua venerabile compulsione degli oggetti culturali. Concluso il liceo, frequenta il corso di laurea in Lettere Moderne dell’Università degli Studi G. D’Annunzio di Chieti-Pescara. Cinefilo, discepolo dei rapporti orgiastici tra le arti, si interessa di antropologia, critica letteraria, delle immagini che nascono spontaneamente dal flusso del mito. Ha fede nell’andatura del Waste Land di T. S. Eliot: “[…] con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”.
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