La donna che visse (più di) due volte
testo di Viola Bonaldi
fotografie di Roberto Ciavoni e Giorgio Della Rocca
L’ascensore comincia a salire in un caseggiato del quartiere Appio-Latino, a Roma. É antico, uno di quei vani in ferro dai movimenti secchi, cigolanti, aggrappati alle corde d’acciaio quasi per sola ostinazione.
Ci si avvicina con lentezza al terzo piano. Una figura di donna comincia a materializzarsi oltre la spessa griglia a esagoni, vivisezionandola in tutto ciò che è ed è stata. Da uno spiraglio vedo la scrittrice, dall’altro la guerrigliera, la prima direttrice di una rivista hardcore nell’Italia dei tempi del pudore, e ancora la compagna di Luciano Bianciardi autore de La Vita Agra, il libro in cui lei è Anna, il libro in cui non si riconosce, forse l’unico libro che vorrebbe non aver letto. Spingo con forza la pesante porta che introduce al piano.
Maria Jatosti attende sulla soglia di casa, il suo “guscio ermetico” di 58 metri quadri. Capelli bianchi, vestito scuro. Non dimostra i suoi 88 anni, è bella, occhi lunghi e vivi, minuta ma tenace. Nemmeno il tempo di figurarmi una vecchiaia tanto dignitosa che subito inizia a raccontare. “Sono nata l’11 febbraio del 1929, una data importante. Era il tempo del fascismo e ogni anno, nel giorno del mio compleanno, c’erano le bandiere in tutta Roma per l’anniversario dei Patti Lateranensi. Io ero piccola e me ne andavo in giro convinta che tutta quella festa fosse per me!”.
Seguo il suo passo fiero e sicuro lungo il corridoio, abbuiato dalla lontananza delle finestre. Stanno sulla destra, oltre il salotto, la cucina e il bagno. I tacchetti si fermano una volta arrivate nella sua camera da letto; all’ingresso c’è una libreria dove il titolo del suo ultimo libro, Che città che città!, si moltiplica per una fila di copie. La città è Parigi, le pagine descrivono le passeggiate del suo ultimo viaggio. A differenza del corridoio questa stanza è rischiarata a giorno dall’apertura che si affaccia sul cortile interno del palazzo, la biancheria stesa dei vicini riflette la luce del sole e il frusciare non disturba il silenzio. Mi fa accomodare su quella che è la sua sedia da scrivania; Lenin, Che Guevara e Maria in topless dipinta a cinquant’anni dal fratello Virgilio sono tre dei tanti sguardi che dalla parete osservano noi e la stanza.
“Mio padre era comunista, i nonni socialisti: quello materno è stato distrutto dai fascisti, gli bruciarono la falegnameria; quello paterno pure, purgato, pigliato, imprigionato, un vecchio socialista. Tant’è vero che alla liberazione, ad Avezzano, il popolo l’ha insediato sindaco senza attendere le elezioni”.
Il padre era maestro elementare e bibliotecario al rione Testaccio, un quartiere popolare della capitale dove abitava con la famiglia; la madre accudiva casa, i sei figli ed i pochi soldi a disposizione. Ora sorride parlando di quando in tempo di guerra andava a letto sognando di mangiare un chilo di pane tutto in una volta e di quando, chiusa nella pace della sua stanza, leggeva Leopardi e desiderava morire.
“Nel ’48 mi iscrissi al PCI che già frequentavo da tempo nella sezione della Garbatella, ci trasferimmo lì quando avevo 11 anni. Ricordo che in sede c’era una bellissima biblioteca: io leggevo di tutto ma i compagni mi dicevano Eh, però Balzac è reazionario! Ma che reazionario, la letteratura non è mai reazionaria! Questa è stata la mia formazione, tra politica, letteratura, curiosità infinite”.
Maria ondeggia sul letto bianco, scossa dalla passione del raccontarsi. Pare che nuoti. Con un’ampia bracciata raggiunge la mensola a bordo letto e indica le opere di Saramago del quale condivide il concetto di “comunismo dell’anima”.
Le lenzuola e i cuscini diventano un mare e dei salvagenti: sospinta dalla corrente dei suoi pensieri si avvicina al suo amore folle, Stendhal. Nel suo Voyage en Italie, il 25 agosto 1811 l’autore francese scrive: Ho fissato un posto nella diligenza di Milano: 168 franchi. È il secondo posto per la partenza del 29 agosto alle otto della mattina. Sarò a Milano in dieci giorni. Maria ci arriva nel febbraio del ’54 dopo un viaggio di 9 ore su di un treno notte carico di speranze e fetori. “Milano mi commuove, mi stravolge. È la città della mia grande esperienza con Luciano Bianciardi e della nascita di mio figlio Marcello. Milano è quel groviglio di bene, di male, di oscuro, di luminoso”.
Nella primavera del ’53 l’incontro con lo scrittore a Livorno durante il convegno annuale della Federazione dei Circoli del Cinema: lui fondatore del cineclub di Grosseto, lei segretaria in Federazione. La voce fonda di Bianciardi mentre legge una poesia di Spoon River, e i suoi occhi che la cercano: tutto ebbe inizio così. A qualche mese di distanza l’opportunità per Luciano alla neonata Feltrinelli del compagno Giangiacomo, “Giangi”. “A Brera mi si notava perché ero bella, bionda, romana, scollacciata, facevo effetto. La gente stava con gli occhi di fuori e lui prorompeva: ‘Lei è la mia donna!’ Era molto geloso, maschilista, ed io in adorazione”.
Maria si gira e indica un ritratto a matita.
“Quello l’ha disegnato Carlo Levi. É Giuseppe Di Vittorio, me lo regalarono i compagni quando lasciai l’Ufficio Stampa della CGIL per venire a Milano. In quel momento lavoravo lì, prendevo i suoi discorsi, li riassumevo e li portavo personalmente ai sindacati, a L’Unita, all’Avanti. Avevo già cominciato a scrivere, una volta nella redazione del settimanale Vie Nuove incontrai Neruda: era accasciato a terra in un angolo, con il labbro pendente. Fu una delusione”.
Le braccia continuano a muoversi per non affondare.
“Insomma, nonostante avessi un bagaglio di vita politicamente e culturalmente importante a Milano ero solo ‘la Maria del Bianciardi’. Le ragazze non ti chiedevano chi sei o cosa fai. Ti chiedevano, tu con chi stai? O eri una puttana o sennò te ne stavi all’ombra di qualcuno. Questa ero. Altrimenti potevi scegliere di fare la moglie, a casa, come quella di Luciano a Grosseto. La nostra storia era illegale, clandestina, vivevamo sotto la minaccia di denuncia per concubinaggio! Che poi ad andare in galera era la donna, non il fedifrago che aveva lasciato famiglia per scappare con l’amante. Questo era il mondo, cazzo”.
“Nonostante avessi un bagaglio di vita politicamente e culturalmente importante a Milano ero solo la Maria del Bianciardi. Le ragazze non ti chiedevano chi sei o cosa fai. Ti chiedevano, tu con chi stai? O eri una puttana o sennò te ne stavi all’ombra di qualcuno”.
Maria ora è ferma. La voce più nervosa. Sospira un “Vabbè” e abbandona il ricordo. Prosegue raccontando della difficoltà ad arrivare a fine mese, di quella metà di stipendio inviata a Grosseto e dell’altra insufficiente a pagare l’affitto, il mangiare, gli aborti. Ricorda gli impieghi di fortuna, i lavori a quattro mani con Luciano, ore e ore alla macchina per scrivere, le occasionali collaborazioni con Feltrinelli, qualche traduzione, qualche revisione: Simone de Beauvoir, Pearl S. Buck.
Nel ‘59 dedica al padre il romanzo Il Confinato, in cui racconta 20 anni di storia famigliare e italiana dagli anni del fascismo alla conquista della democrazia.
Tre anni dopo, La vita agra di Bianciardi è alle stampe.
“Quando ho letto il manoscritto ho avuto una crisi, non mi riconoscevo in Anna, una che scopa, dorme e basta! Cazzo, gli dico, la nostra storia è questa? Ma cavolo, ho fatto mille lavori! Non lo sopportavo. Il successo, la mondanità mi facevano profondamente schifo. Avevano sempre tenuto Luciano in disparte perché era rozzo, toscanaccio, bestemmiatore, ed improvvisamente tutti lo volevano, lo acclamavano. Ho preso mio figlio e me ne sono andata da Milano”.
Rapallo è la meta scelta. Di quel posto ricorda la casa e il terrazzo che sembrava una piscina per le piastrelle verdi-azzurre luccicanti al sole. Con nuovo entusiasmo negli occhi, parla delle grandi nuotate, di come lei e Marcello arrivavano fino a Portofino remando. Proclama didascalie delle foto del figlio, di quando da piccolo andava matto per la Cola e poi di quando, da grande, frequentava le comuni e lei doveva percorrere mezza Europa per andarlo a trovare; della sua vita da musicista e a sua volta da traduttore; di come imparò a leggere grazie al maestro Manzi di Non è mai troppo tardi, che lo teneva incollato alla tv ad imparare l’alfabeto e le parole mentre lei traduceva romanzi rosa per Cino del Duca.
Indica la finestra ai piedi del letto e le due piccole brocche d’argento sul davanzale interno. “Provengono dalla libreria che dirigevo a Rapallo. Era bellissima, aveva anche un reparto di antiquariato inglese. Naturalmente è diventata la libreria di Bianciardi. Ancora. Inizialmente lui faceva il pendolare, ci veniva a trovare ogni tanto; all’ultimo si è insediato ed è stata la sua rovina. Era depresso, aveva rimorsi nei confronti della famiglia, si degradava con la gente del posto, ha iniziato a prendere barbiturici e a berci dietro una bottiglia di grappa a sera. Si stava uccidendo. Per salvarlo gli dissi di andare a Grosseto, ma fu peggio. Allora lo presi con le forze, lo caricai in macchina e lo ributtai a Milano, nella mischia”.
Una pausa e un’altra profonda boccata prima di una nuova immersione nel blu più scuro.
“Hanno scritto tanto, ne hanno raccontate di tutti i colori… hanno usato tanta retorica e menzogne per parlare della nostra storia. È stata di una forza, di una bellezza… ma anche tremenda, di grande brutalità. Luciano era un uomo complesso, una grande intelligenza, ma nell’ultimo periodo aveva dei lati oscuri terribili. Vabbè. Io ci credo, trovo una casa, ricomincio di nuovo da capo. Almeno a Milano avevamo degli amici, non combattevo più da sola. Ma fu solo un’illusione, solo un procrastinare la fine. Vanificati i miei sforzi non ce l’ho più fatta, dovevo difendermi dallo sfascio completo e proteggere mio figlio: dopo averne parlato con Luciano, me ne sono andata. Torno giusto in tempo per vederlo spirare, e lì il macigno, l’eredità che mi ha lasciato: È stata tutta colpa tua”.
Alla fine del 1971 Maria è semplicemente Maria Jatosti: senza soldi, con un figlio da mantenere e i compagni delle case editrici che le danno del lei. Per vivere entra nella redazione della rivista di sessuologia Venus, ma poco dopo chiude i battenti. Nel ’74 l’amico Giorgio Colorni, caporedattore di Le Ore, la vuole con lui. Risale invece al ’69 il racconto lesbo Aspettando l’amore scritto per ABC dopo la pubblicazione di storie di Calvino, Moravia e dello stesso Bianciardi.
“Nun l’avessi mai fatto! Mi chiesero di scrivere romanzi erotici a 500.000 lire a libro, una cifra astronomica! È da quel racconto che ebbe inizio la mia carriera da pornografa”.
Nel ’75 Maria diviene caporedattrice de Le Ore della settimana, rivista di attualità e politica, specializzata nella narrazione dei fatti più scabrosi e nel racconto del sesso in ogni sua declinazione. Dopo la sezione del Sexoroscopo, negli anni ’70 sul settimanale si potevano trovare articoli dal titolo Quando prude la coniglia se la vedono in f…amiglia con fotografie in bianco e nero a ritrarre donne nude – ma con i calzettoni – intente a risolvere in un modo o nell’altro il problema della solitudine, o reportage di presunti inviati da Nairobi su L’amore nell’Africa nera sfatando il pudore delle “negre” e ammettendo che la terra d’ocra sul volto è molto più facile da lavare rispetto alle creme delle signore bianche, con un netto guadagno della voglia sessuale.
“La redazione era l’Armata Brancaleone” scoppia in una risata. “C’era quello di Lotta Continua, il leninista con solo la politica in testa, l’altra obesa repressa, la gran figa tette fuori e stivali. L’unica che sapeva scrivere ero io. Il padrone Saro Balsamo mi raddoppiò lo stipendio e quelle merde della redazione pensavano fossi o una spia o la sua amante. Mi odiavano. In quei giorni li difesi pure, una volta inveii al telefono contro Balsamo, perché minacciava il licenziamento di uno dei ragazzi, urlai che il tempo dello schiavismo era terminato da secoli, mi venne fuori tutto il comunismo! Pensai che ormai avrei perso il lavoro: invece mi chiamò e mi nominò direttrice in seduta stante, la prima di un magazine per soli uomini”.
L’escalation della carriera da pornografa coincide col passaggio dall’erotismo soft al porno duro su carta, sulla scia della concorrenza spietata di OV e la sfrenatezza del mercato svedese, paese in cui non esistevano restrizioni legali in materia.
“Io ci lavoravo solo per necessità economica, il problema è che mi presero per fanatica! La mia era solo volontà di fare un lavoro per bene, non importa se parlava di cazzi culi e tette. Cercavo di fare capire che se avevano di fronte una foto di Hamilton bisognava utilizzare un linguaggio più raffinato, allusivo; se invece c’era una scena di sesso vero allora sì, dei termini più forti. Si lamentavano quando gli bocciavo il pezzo, e guadagnavano pure fior di soldi! Siamo a fare ‘ste cose demmmerda e pretende la Divina Commedia dicevano. Facevo il giornale tutto da sola, dal menabò alla stampa, sceglievo le fotografie, i titoli. Che nausea. L’unico felice era mio nipote Vittorio. Faceva il militare vicino a Milano e quando mi veniva a trovare prendeva scatoloni di giornaletti da portare ai commilitoni!”.
Riemerge dalle acque del letto, fruga nella libreria e afferra un volumetto.
“Questa è una cosa che ho scritto e della quale mi vergogno più della pornografia. Quante ne ho fatte!”. Sulla copertina: Maria Jatosti, Padre Pio. Il piccolo grande frate di Pietrelcina.
Esce dalla stanza con piglio, la seguo in cucina. Svuota accuratamente in una ciotola delle patatine al pomodoro e basilico, “gusto italiano” legge. “Bah”. Prendo dalla credenza bianca due calici di vetro dal gambo rosso: brindiamo ‘alla rivoluzione!’ con della birra fresca e racconta dei suoi ultimi quarant’anni di vita, di quando ha lasciato Le Ore per il matrimonio, il ritorno a Roma con quello che nel ‘78 diverrà suo marito, Paolo.
“È un angelo sceso in terra per rendermi felice. Mi ha riportato alla vita. Pensa che non lo volevo sposare perché avevamo 20 anni di differenza! È il maggior studioso di Pratolini (di cui ha curato I Meridiani ndr), un poeta. Lui è il mio perno, la mia sicurezza. Scrisse per Paese Sera una recensione di Tutto d’un fiato, il mio secondo romanzo: aveva capito tutto. Quando lo incontrai mi si parò davanti ‘sto ragazzino bello come il sole, ci innamorammo come due pere cotte”.
Segue un nuovo trasferimento, la scrittura di romanzi e poesie e il lavoro culturale come Presidentessa del Sindacato Nazionale Scrittori della regione Lazio per i quali organizza per lungo tempo festival, eventi, reading, spettacoli.
“Non ho mai pensato alla carriera politica, ho avuto un rapporto di amore e odio verso il partito. A 20 anni credevo nella rivoluzione pur riconoscendo ciò che è stato orrendo, ora è diverso. Alla Garbatella mi chiamavano la pasionaria, andavo a manifestare sotto l’ambasciata degli Stati Uniti. Un giorno ci presero e ci misero in una celletta senza intimità alle Mantellate ma ci rifiutammo di fare la Wassermann, un test per la sifilide: eravamo politiche, mica mignotte! Facemmo così tanto baccano cantando a squarciagola le canzoni di partito, l’Internazionale, Bandiera Rossa, che il direttore, stremato, ci rilasciò prima del previsto!”.
Un altro sorso e descrive la sua disciplina quotidiana: alzarsi dal letto e scrivere qualsiasi cosa, che sia l’ultimo romanzo, un ricordo, un pensiero, “l’importante è esercitare la memoria, usare la parola” dice.
Sul pianerottolo decido di non chiamare l’ascensore: preferisco voltarmi, guardare Maria nella sua interezza e ricomporre i suoi frammenti in un pezzo unico, mentre mi segue con gli occhi dalla porta di casa. Scendo le scale aprendo la sua raccolta di poesie che mi ha regalato, gli scalini dettano le pause.
La mia vita / ovvero ciò che resta / di questa farsa in cerca d’autore / per di più recitata goffamente / da mediocre comparsa. Ripenso alle parole dette qualche momento prima: “Per anni sono stata per tutti la compagna di Bianciardi. Non lo sono più. Scrivo da sempre, ho combattuto, ho dovuto ribellarmi. Finalmente sono io, Maria Jatosti. Me la sarò guadagnata, no?”.
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* Questo reportage è comparso per la prima volta all’interno del Numero 71 (maggio-giugno 2017) di CTRL magazine, una rivista cartacea che non esiste più. Lo riproponiamo in questa sede allo scopo di renderlo disponibile al pubblico: teniamo alla vicenda umana e letteraria di Maria Jatosti, così come al ricordo di quell’incontro.