Monk

    di Antonio Villani
    illustrazione di Michele Rota

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    Maybe you’re the same as me
    we see things they’ll never see
    (Oasis, Live forever)

    Un film decente di Michael Bay.
    Un cappellino da baseball che non faccia sembrare ridicolo chi lo indossa.
    Il capitalismo etico.
    Questi erano solo alcuni degli ossimori che ritenevo comunque più plausibili del matrimonio di Ulisse. Poi, cinque mesi fa, un urlo in caps lock ha sferzato la mia home di Facebook: “I SAID YES!”, con tanto di tag col nome del mio amico. A corredo dell’annuncio, circa sei foto dello stesso anulare femminile avvolto in una fede con diamante, e una raffica di commenti di donne di ogni età, falsamente felici o sinceramente invidiose.
    Pochi minuti dopo, Ulisse confermò tutto nel Quadrilatero, il nostro gruppo Whatsapp. Lui e Clorinda si sarebbero sposati il 18 giugno e il ricevimento avrebbe avuto luogo – giuro che usò proprio questa espressione orribile da partecipazioni stampate su carta di Amalfi, “il ricevimento avrà luogo” – in un ristorante tra Sorrento e Massa Lubrense, lo stesso in cui si erano sposati i genitori e il fratello di lei. Ovviamente, io, Nessuno e Averroè gli facemmo subito le congratulazioni, perché la liturgia di certi annunci implica una quota indisponibile di formalità. Poi, ognuno di noi scrisse qualcosa che rispecchiasse il personaggio che si era costruito negli anni.
    Averroè, appassionato di filosofie orientali, citò i versi di una poesia indiana del XVI secolo che paragonava il matrimonio ai semi del cedro.
    Nessuno, il meno estroso di noi e per questo il più elegante, disse che avrebbe approfittato dell’occasione per indossare i gemelli d’oro che gli aveva regalato Pixie per il loro terzo anniversario.
    Io, che mi ero autoproclamato leader della sinistra hegeliana nel Quadrilatero, ero stato tentato dal lanciarmi in una filippica sul valore del matrimonio come atto di ostentazione conservatrice che non aveva più niente a che fare con la preservazione della società occidentale, ma codardamente mi nascosi dietro i versi di una delle nostre canzoni preferite: I hope the weather is calm as you sail up your heavenly stream. Da un paio d’anni, il rapporto tra me e Ulisse non era più intenso come in passato, sebbene ci sforzassimo entrambi di mantenere il lessico e la prossemica dei tempi d’oro. A parti invertite, lui non avrebbe perso l’occasione per stoccare una battuta sferzante; io preferii evitare, perché preferisco anche il più labile e posticcio degli equilibri a un rischio sproporzionato.
    Da quel pomeriggio di cinque mesi fa, ho pensato spesso al giorno in cui Ulisse si sarebbe sposato, e ogni volta mi sentivo assalire da una frenesia che somigliava all’insonnia prima di un esame. Non era invidia, come per le amiche di Clorinda, ma neanche eccitazione. Era la presa di coscienza che, sposandosi, Ulisse avrebbe zittito per sempre Monk.          

    Io, Ulisse e Averroè siamo amici da quasi vent’anni. Quando ci siamo conosciuti, in prima liceo, non esistevano ancora i social network e il calcio di posizione alla spagnola, e gli anni Novanta si erano conclusi da troppo poco tempo per provarne già nostalgia. Ci sono bastati pochi giorni di scuola, due chiacchiere nel cambio dell’ora e un filone l’ultimo sabato di settembre, per capire che eravamo tutti ospiti di Monk. È vero che il Caso domina sul mondo, ma a volte alcune tessere del Mosaico Universale che sembrano nate per incastrarsi finiscono davvero per farlo. È semplice statistica, ma è così che un materialista come me immagina il Destino: l’eccezione, matematicamente dimostrabile, alla casualità.
    Nessuno si è aggiunto dopo. Era in classe col cugino di Averroè e ogni tanto giocava a calcetto con Ulisse. Ci eravamo trovati insieme a qualche festa di compleanno, e all’inizio lo guardavamo con sospetto: troppo elegante, con quelle camicie azzurre, i pantaloni beige e il volto glabro ‒ noi che sfoggiavamo con orgoglio quella lanugine torbida che ci cresceva sulle guance come fosse una vera barba. È bastato parlarci un paio di volte per far cadere i nostri pregiudizi: Nessuno aveva, e ha tuttora, un umorismo molto pungente, che nascondeva sotto una timidezza e un’educazione endemica. Ma soprattutto, capimmo subito che lui sarebbe stato la quarta linea del Quadrilatero, perché anche lui covava dentro di sé Monk.
    Monk.
    È così che, a un certo punto, abbiamo deciso di chiamare quella condizione di incompletezza che ci rendeva “beffardamente fuori sync rispetto al resto del mondo”, come sintetizzò una volta Ulisse.
    A sedici anni, eravamo quelli senza ragazza.
    A ventitré, quelli senza laurea.
    A ventinove, quelli senza lavoro.
    A volte, scherzando, dicevo che la nostra amicizia, come Napoli, era stata costruita su delle cavità. Eravamo quattro adolescenti bianchi borghesi a cui piacevano gli Oasis, i Simpson e Final Fantasy, ma che sistematicamente saltavano un checkpoint nel sentiero tracciato dagli Antichi Padri. Forse eravamo rimasti intrappolati in una prigione di non-fare-così-che-pare-brutto e ricordati-che-sei-il-figlio-di-un-professionista, ma mentre i nostri coetanei non mancavano neppure una delle tappe che la nostra condizione ci imponeva, noi quattro accumulavamo ritardo su ritardo.
    A un certo punto, quel vuoto si era fatto così assordante da spezzare l’armonia del resto delle nostre vite. Per questo lo chiamammo Monk, come il virtuoso dei cluster, dei ritardi, degli accenti spostati. Ogni volta che uno dei nostri genitori ci diceva, con voce venata di invidia, che il figlio di quel suo collega si era appena laureato, mentre noi avevamo appena raccolto nei pugni il coraggio per chiedere di uscire alla ragazza che ci piaceva, dentro di noi Monk pulsava più forte e ci strideva nell’anima.
    Quattro anni fa, Averroè ha deciso di smettere di sentirsi sbagliato e di voler stabilire da solo i criteri che decretano la felicità, e se n’è andato a Bologna a cercare se stesso, e anche un impiego. Non ebbi neanche il tempo di salutarlo come avevo fatto con tutti gli altri amici che negli ultimi dieci anni erano andati al Nord per ottenere il lavoro e la dignità che qui sembravano un miraggio o peggio ancora un privilegio. Mi telefonò per dirmi che sarebbe partito il giorno dopo e mi supplicò di capirlo. Stetti molto male.
    Quell’episodio aveva unito ancora di più me, Ulisse e Nessuno. Adesso non eravamo più solo degli amici, ma anche dei reduci. E intanto, continuavamo la nostra rincorsa, senza mai fermarci: Nessuno aveva trovato l’amore della sua vita, Pixie; Ulisse aveva cominciato a lavorare come consulente informatico nell’azienda dove lavorava sua sorella; e io, dopo molti più anni di quanto ne occorrerebbero a una persona di media intelligenza, mi sono finalmente laureato. 

    «Quale cravatta metto? Quella blu che mi ha regalato tuo padre o quella della laurea?»
    «Quella della laurea. Così si ricorda che tu ce l’hai e lui no».
    Il volto sullo schermo è un mosaico sfuggente di pixel che solo grazie a una pareidolia riesco a identificare come Sofia, la mia fidanzata. La sua voce, invece, è calda e tagliente come al solito, anche filtrata dalla ferraglia degli altoparlanti. Lei non verrà al matrimonio di Ulisse: è a Francoforte per il suo semestre di dottorato al Max Planck Institut. Ha promesso però di farmi compagnia via Skype mentre mi preparo, e come al solito sono finito a chiederle più consigli di quanto avessi preventivato. Tra i due, quello di gusto sono sempre stato io, ma lei sa essere decisa, che è un talento decisamente più pratico.
    «Scherzi a parte, penso che quella della laurea si intoni meglio al blu del completo», mi dice.
    Avvicino la cravatta al colletto e mi guardo allo specchio. Il rosso chiaro si appoggia perfettamente all’azzurro tenue della camicia e il blu di Prussia della giacca. Mentre lascio scivolare su e giù i lembi della cravatta come funi di un montacarichi, l’angolo destro della spalla di Sofia viene coperto da una notifica di Telegram.
    «Sono arrivati Nessuno e Pixie?», mi domanda.
    «Sì».
    Infilo in fretta la punta della cravatta nell’asola creata con le dita, e tiro. Il risultato è una specie di cappio elegante, la caricatura di un nodo Windsor. Odio dover fare certe operazioni di prescia, perché non ho manualità. La mia maestra delle elementari me lo ripeteva ogni volta che mi vedeva lottare con le forbici: “sei come un cinese che prova a mangiare con la forchetta”. Nel frattempo, i cinesi hanno imparato a usare la forchetta, e io mi faccio ancora tagliare il cotone che unisce le paia di calzini nuovi da mia madre. Da Francoforte, Sofia ride.
    «Stai tranquillo, possono aspettare due minuti» mi dice, mentre disfo il nodo e lo rifaccio.
    Stavolta il risultato mi soddisfa. L’incrocio della stoffa ha disegnato un trapezio perfetto, che nasconde quasi del tutto il maledetto ultimo bottone della camicia che fa sempre capolino. Sofia, dallo schermo, fa un piccolo applauso e mi manda un bacio con la mano.
    «Salutami tutti, tranne lo sposo e la sposa» dice, prima di sparire in uno sfarfallio di pixel.

    Clorinda, l’ormai-a-pochi-minuti-dal-diventare la moglie di Ulisse, aveva fatto le elementari con Sofia. Era stata lei a presentarglielo, in uno di quei sabati sera loffi in cui uno di noi finiva sempre per chiedere agli altri “vi dispiace se porto un amico? La sua comitiva lo ha appeso”.
    All’inizio, com’era prevedibile, non si erano piaciuti. Venivano da mondi diversi, con diverse cosmogonie e diverse escatologie. Soprattutto, lei non aveva mai conosciuto Monk: le tappe importanti le aveva realizzate tutte; l’unica ribellione alle regole quadrate e cattoliche della sua famiglia era stata diventare vegana. Per questo Ulisse, che tende a considerare dissacrabile tutto ciò che è alieno alle sue passioni, passò tutta quella che si preannunciava come una serata moscia in un pub scrauso a lanciarle frecciatine sul sacrificio del privarsi della carne. Lei, impermeabile al sarcasmo, continuava a ripetere quel miscuglio di slogan, leggende metropolitane e sentenze moraleggianti che tutti quelli che si cibano di foglie e fagioli conoscono a memoria, col solo risultato di istigarlo ancora di più.
    A fine serata, mentre tornavamo alla macchina, Ulisse mi disse:
    «Chesta è tutta scema!»
    Io risi e concordai. Non mi era mai piaciuta Clorinda; il fatto che anche il mio migliore amico la pensasse come me mi confortava.
    Due settimane dopo, uscirono insieme per la prima volta. Due settimane e un giorno dopo, aveva già inondato i social di canzoni di Biagio Antonacci e di quegli orribili selfie di baci in bocca in cui sembra sempre che uno dei due si sia rassegnato a farsi mangiare la faccia dall’altro.
    Non ho mai capito cosa gli avesse fatto cambiare idea. Forse la paura di restare solo o il bisogno di quietare del tutto Monk. So solo che tutto quello che successe dopo sfugge ancora alla mia comprensione, e saprei raccontarlo solo ricorrendo alla più noiosa delle figure retoriche: l’anafora.
    Ricordo Sofia che prova a convincere Ulisse che due persone come lui e Clorinda non erano fatti per stare insieme, perché avrebbero finito per appoggiarsi l’uno sulle fissazioni dell’altra.
    Ricordo Ulisse che, con la spericolatezza dell’innamorato, la rassicura che non sarebbe andata così.
    Ricordo che io ero d’accordo con la mia ragazza, ma mi sentivo in colpa perché non avevo mai visto Ulisse felice come quel giorno.
    Ricordo Clorinda che, piano piano, lo trascina nel suo mondo e lo costringe a proteggerla; lui che non aspettava altro, perché si sentiva un eroe anche quando eravamo i più sfigati della scuola.
    E ricordo che io lo lasciavo fare senza intervenire, perché in fondo Clorinda mi stava sul cazzo e mi faceva piacere non averla sempre davanti ai piedi. E intanto lei e Sofia erano sempre più lontane, sempre più agli antipodi, sempre più diverse.
    Ricordo grandi urla, grandi accuse di reciproco abbandono e di reciproci “lei ti ha fatto il lavaggio del cervello” quando questa cosa è scoppiata.
    Ricordo il mio mondo diviso in due come in una guerra fredda.
    Ricordo di aver maledetto il mio voler essere sempre così manicheo da non riuscire a perdermi nelle sfumature.
    Ricordo un grande silenzio e una voce rotta dall’imbarazzo.
    Poi, d’improvviso, di nuovo la luce.

    «È stata una cerimonia commovente».
    Averroè dà una pacca sulla spalla di Ulisse e accenna un abbraccio. Lui risponde con uno dei suoi sorrisi intrisi di compiacimento e imbarazzo, due sentimenti che solo in lui ho visto convivere con tanta coerenza. Io, Nessuno e Pixie ci accodiamo al complimento per educazione. Il novello sposo suda vistosamente mentre ci ringrazia: è incartato in un completo blu elettrico di raso, molto attillato, e fuori ci sono ventotto gradi. Fosse dipeso da lui, si sarebbe sposato a metà primavera e in jeans ‒ due desideri che Clorinda ha evidentemente bocciato. Mi sembra quasi di sentire la sua voce stridula che gli dice: “per carità, io sono sempre a favore di chi vuole affermare la propria libertà, ma poi come glielo spiego alla mia famiglia? Loro vogliono un banchetto in estate che duri quanto Ben Hur e Avengers: Endgame insieme, non posso deluderli!”. Il peggior tipo di conformismo borghese: quello che si nasconde dietro i mos maiorum e costringe il tuo fidanzato ‒ che per una serie di incastri tutt’altro che secondari è anche il mio migliore amico ‒ a soffrire nella sua guaina scintillante.
    «Mi piace troppo come ti sta questo colore. Pure la cravatta lilla, molto chic!»
    Stavolta tocca a Nessuno complimentarsi. È bravissimo a farti credere che ciò che indossi ti sta bene, nonostante l’evidenza suggerisca il contrario. Il più delle volte, mente per il piacere di fare conversazione senza offendere nessuno; ma spesso le sue bugie sono pensate per far ridere me e Pixie, con cui c’è tutto un linguaggio segreto fatto di esche, tic e segnali in codice. E infatti, non appena ha scoccato l’aggettivo “chic” riferendosi a quell’orribile cravatta lilla, io e Pixie ci siamo guardati e abbiamo sotterrato una risata nelle spalle. Lui se ne è accorto e ci ha fatto l’occhiolino da dietro gli occhiali da sole.
    «Mi sono piaciuti i voti nuziali. Li avete scritti voi?»
    Ulisse sgancia un altro sorriso dei suoi, stavolta 70% compiacimento e 30% imbarazzo. Si aspettava quella domanda da Averroè, il nostro saggio, il nostro filosofo spiritualista, e perciò si era preparato una risposta all’altezza.
    «Sì sì» dice, raddoppiando l’affermazione per renderla più melodiosa e convincente.
    «Complimenti, allora», sorride Averroè. «Mi è piaciuto in particolar modo un passaggio: perché noi crediamo l’uno nell’altra, noi abbiamo bisogno l’uno dell’altra».
    «Quella è una citazione degli Oasis», diciamo io e Ulisse, all’unisono.
    Ci guardiamo negli occhi e sorridiamo, istintivamente. Per un attimo, ci sembra di essere tornati indietro di dieci anni, ai nostri ritorni a casa di notte in macchina cantando a squarciagola tutti i brani di The Masterplan. Forse è questa la vera conquista, penso: riuscire sempre a ritrovare la strada di casa, ovunque tu sia.
    «Ecco qua lo sposo! Seeeelfie!»
    La madre di Clorinda e la sua carovana di “e” si abbattono sulla nostra epifania. Il suo profumo agli agrumi ci schiaffeggia le narici, ma è comunque meno sgradevole dell’immagine di una sessantacinquenne alle soglie dell’obesità vestita di veli verde-acqua e con una corona di fiori. Afferra il neo-genero con una delle sue braccia colossali e lo spinge al petto; una mossa che Ulisse, da amante del wrestling, avrebbe dovuto apprezzare più di quanto suggerisca la sua espressione imbarazzata.
    Io, Averroè, Nessuno e Pixie capiamo che è il momento di allontanarci. Una giovane cameriera stupefacentemente priva di sussiego ci indica il nostro tavolo.
    «Come lo vedi?», domando ad Averroè.
    «Emozionato, ma felice».
    «Mh».
    «Non ti vedo convinto».
    «No, non lo sono. Non si può zittire Monk così».
    «E chi ti ha detto che bisogna zittirlo?» mi dice, facendomi l’occhiolino.
    Poi si ferma a salutare i cugini di Ulisse. Io prendo posto. A centrotavola, aperto come un messale, c’è il menù, appoggiato a una composizione di fiori di plastica da cui fa capolino un biglietto: “il matrimonio di Ulisse e Clorinda”.  

    «Lo sposo potrebbe salire sul palco, per favore?»
    La cantante lascia cadere quell’invito appena dopo che è stato servito il primo. Ulisse avanza tra gli applausi verso il palchetto dove è stato sistemato il duo che si occupa dell’intrattenimento. Dopo il buffet e l’antipasto, il completo blu elettrico sembra essersi rimpicciolito ancora di più, e a ogni passo il tessuto fischia come gomma strofinata. Io e Nessuno ci guardiamo interdetti.
    «Allora, sposo, voglio farti un piccolo quiz», cinguetta la cantante, lasciando scintillare il suo abito di paillettes che la fa somigliare a un sarago. Ulisse annuisce.
    «Chi ha pronunciato questa frase: “il matrimonio è una bara e ogni figlio è un chiodo in più”?»
    Ulisse si sporge timidamente verso di lei e quasi sussurra: «Homer Simpson».
    «Bravissimo!», si congratula la donna-sarago. «Facciamogli un bell’applauso!»
    Io e Nessuno obbediamo di buon grado. Averroè ride. Pixie ha appena eseguito il facepalm più fluido e sincero che abbia mai visto.
    «Ora vogliamo sapere una cosa, però» prosegue la cantante, quando gli ultimi battimani scemano. «Anche tu la pensi come Homer?»
    «Ovviamente no» sussurra di nuovo Ulisse. Il microfono emette un sibilo acutissimo, quasi si sentisse insultato da quelle parole così flebili.
    Altri applausi dalla sala.
    «Eppure, caro sposo» continua la donna-sarago, «la tua dolce mogliettina crede che Homer non avesse proprio torto, sai?»
    La cantante fa due passi indietro e scosta la tenda alle sue spalle. Un singulto spaventato s’impenna dai tavoli. Sul palco appare una bara con il nome di Ulisse.
    «Non preoccupatevi: è di cartone» ci tranquillizza la donna-sarago, battendoci le nocche sopra. «Vogliamo vedere cosa si nasconde qui dentro, sposo?»
    Ulisse annuisce e scosta l’anta di cartone. Nel feretro ci sono una chitarra acustica piena di adesivi – quella su cui suonavamo le nostre canzoni – la sciarpa del Chelsea che comprammo in gita a Londra, i dischi degli Oasis e dei Foo Fighters che ascoltavamo in macchina. Comincio a sentirmi molto nervoso. Averroè mi stringe il polso per calmarmi.
    «Riconosci questi oggetti, sposo?» domanda la cantante.
    Ulisse allarga le braccia come se gli avessero chiesto se due più due faccia davvero quattro.
    «La tua dolce mogliettina ti scrive queste parole». La cantante estrae un pizzino dallo scollo del vestito. «“Dicono che il matrimonio sia la tomba dell’amore. Niente di più sbagliato! Il matrimonio è la tomba della vita passata, quella che vogliamo dimenticare e che non ci rappresenta più. Seppellisci il vecchio te in questa bara, amore mio, e cominciamo a vivere pienamente ogni giorno della nostra nuova vita insieme!».
    Un applauso commosso scroscia dalla platea. I genitori degli sposi si asciugano le lacrime coi tovaglioli; la zia di qualcuno – non saprei dire di chi, le zie sono tutte uguali – improvvisa una standing ovation. Tutti si voltano verso Clorinda, che alza un calice in segno di ringraziamento. Io e Nessuno ci guardiamo perplessi, ed è già la terza volta in meno di un’ora. Pixie mormora «ma non la sapeva leggere da sola ‘sta stronzata?» ma poiché ha la erre moscia, “stronzata” le esce dalla bocca morbida come pasta choux.
    Ulisse fa per scendere dal palco, ma la donna-sarago lo trattiene per una manica.
    «Aspetta, non abbiamo ancora finito!» gli dice. «E già, caro sposo, perché a nome della tua cara mogliettina e di tutti questi meravigliosi familiari e amici, ti chiediamo di entrare simbolicamente nella bara per salutare la tua vecchia vita!».
    Un applauso ancora più forte esplode nella sala, puntellato qua e là da risate beffarde. Ulisse sembra spaesato mentre la cantante spalanca l’anta del cataletto. Dal tavolo degli sposi, Clorinda urla “forza, amore!” con le mani attorno alla bocca. Altri la imitano. Io vorrei sprofondare.
    «Maestro, si può avere un po’ di accompagnamento?» domanda la donna-sarago all’altra metà del duo, un tastierista. Note sdolcinate di piano e chitarra classica vengono sparse per la sala. Pixie finge di infilarsi due dita in gola per vomitare.
    Mi sto innervosendo; sento formicolare le dita delle mani. Un brivido felpato mi paralizza la nuca.
    Ulisse abbraccia la nostra chitarra ed entra nella bara. La cantante richiude l’anta di cartone, mentre l’assolo di chitarra raggiunge il climax. I commensali ridono: qualcuno batte le mani come allo stadio, altri scavano con le dita nei panini al burro, incuranti dello spettacolo.
    Guardo Clorinda che sorride compiaciuta. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano. “Ho vinto io” sembra dire il suo, e non capisco se è più stupida lei a considerare l’affetto di Ulisse una posta per cui battagliare o io che ammetto di averlo perso.
    «Siete pronti ad accogliere di nuovo il nostro sposo?» trilla la donna-sarago.
    Un roboante “sì” ratifica la decisione. Sento che sto per scoppiare, devo uscire dalla sala. Averroè mi trattiene.
    «Stai tranquillo» mi sussurra facendomi l’occhiolino.

    Quando la donna-sarago riapre la bara, la prima cosa che vediamo è il completo blu elettrico di Ulisse aggrottato in mille pieghe lucide. Poi, i dischi sullo sfondo: non sono più quelli degli Oasis, ma robaccia smielata alla Fabrizio Moro. Anche la sciarpa del Chelsea non c’è più; al suo posto, una pashmina lilla con dei motivi geometrici.
    La cantante si affaccia nel feretro per controllare. Quando si volta di nuovo verso la sala, il terrore e l’imbarazzo hanno già preso possesso del suo volto. Il microfono le cade di mano. La musica si interrompe.
    Ulisse è sparito.
    Clorinda urla “vieni fuori!”. Poi lo fanno i genitori, i fratelli, gli zii. Qualcuno solleva la tovaglia e guarda sotto i tavoli. I bambini corrono avanti e indietro scostando le tende.
    Nella sala è il caos.
    Pixie ride.
    Nessuno è sgomento.
    Averroè mi fa di nuovo l’occhiolino. 

    La voragine si è riaperta.
    Monk è tornato a pulsare.
    E io, finalmente, mi sento di nuovo tranquillo.

    ***

    L’autore
    Antonio Villani, classe 1989, è dottore in Giurisprudenza e praticante Notaio iscritto al Collegio Notarile di Napoli, ma ci tiene a essere considerato comunque una persona perbene.
    Influenzato da autori come Vonnegut, Benni, Sclavi, Keret e B.M.Bendis (i quali declinano ogni responsabilità a riguardo), ha pubblicato i romanzi La Venere Dobner (Eretica Edizioni, 2017) e Collezione Privata (Scatole Parlanti, 2019), e ha pubblicato racconti per antologie e varie riviste, tra cui Parte del discorso, Coye – Periferie letterarie, e per la raccolta L’Altalena (Alt! Edizioni, 2017).
    A conferma del suo bipolarismo, collabora altresì con le riviste giuridiche Salvis Juribus e Diritto.it.

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