Oltre il romanzo – L’invenzione degli animali, di Paolo Zardi
di Viola Bonaldi
Si è nel 2035 circa, in uno scenario a noi non più così distante: a Milano vi è una carestia di generi alimentari, il meteo segue regole proprie, dal nord si scappa al sud, attorno alle città ci sono mura a dividere il fuori dal dentro. La giovane coppia formata da Lucia e Patrick viene assunta dalla multinazionale Ki-Kowy, “vita eterna”. Dopo un primo periodo di studio monastico e rinunciatario, lei, più riflessiva e disinteressata alla scalata sociale, viene assegnata a un progetto di ibridazione genetica tra uomo e animali con attenzione alle implicazioni etiche, filosofiche, cognitive; lui, più pragmatico e arrivista, ha l’ambizioso compito di rivedere il modello capitalista. Il lavoro amplifica i tratti dei due che, una volta colto (Lucia in primis) l’obiettivo delle menti dietro alla Ki-Kowy – iniettare cellule umane negli animali usandoli come “incubatori” di organi da espiantare e innestare a chi ne ha bisogno, tra tutti la moglie del fondatore – si trovano a scegliere tra lavoro, amore, coscienza.
Tutto questo si sbroglia tra descrizioni scientifiche di atti naturali (un accoppiamento di gatti è una «lotta per la trasmissione dei geni»), riferimenti al nazismo e la storia d’amore tra Lucia e Patrick, alla quale viene dato un forte peso. Ma è il tema della coscienza che domina fin dall’epigrafe, l’incipit de Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes, un saggio che tra l’altro è stato analizzato da Zardi sul suo Grafemi. Nel 2012 questo articolo disegnava, più o meno intenzionalmente, la struttura che otto anni dopo avrebbe retto L’invenzione degli animali (Chiarelettere, 2019) e che oggi ricalca i principali passaggi della teoria dello psicologo americano: in estrema sintesi, la mente dotata di una coscienza sarebbe il risultato del superamento (per cause sociali e antropologiche) della mente bicamerale, quindi del cervello suddiviso in due emisferi con proprie caratteristiche, il sinistro “razionale e cosciente come un normale essere umano”, e il destro che “reagisce al mondo con grande forza e, quando può, cerca di comunicare all’emisfero sinistro il suo sdegno, la sua rabbia, il suo rimprovero. Proprio come fosse un dio”
Tre elementi – l’emisfero destro “umano”, il sinistro “divino” e la coscienza – che potrebbero essere associati ai protagonisti e al percorso verso la correttezza morale intrapreso dalla ragazza, divenuta essa stessa immagine della coscienza, e in seguito da Patrick, l’umano, che decide di superare la divinità Ki-Kowy. Categorizzare nell’area distopica L’invenzione è quindi riduttivo. È sicuramente un romanzo molto più profondo di quanto sembri, un viaggio nell’evoluzione umana vista dal lato sentimentale, antropologico, filosofico, scientifico.
Se avessi dovuto scrivere una recensione de L’invenzione degli animali di Paolo Zardi, all’incirca sarebbe apparsa così, magari un po’ più ricamata e approfondita. Nel momento in cui ho ripreso in mano il libro, però, mi sono chiesta se fosse un modo giusto e sufficientemente utile di aggiungere, dopo svariati mesi, un altro commento nel calderone di quanto è già stato scritto e riscritto. A chi avrei parlato? C’è ancora un pubblico – di questo tipo di contenuti – che non sia fatto di recensori, collaboratori, redattori, scrittori esordienti e non, editor, agenti e operatori editoriali in genere? Quanti sarebbero stati interessati a leggere un altro articolo testimoniale su un libro uscito, per giunta, più di sette mesi fa? Probabilmente pochi, e credo non sia infondata l’impressione che talvolta la priorità dello scrivere di libri sia il gesto, l’esercizio pubblico. Considerato tutto ciò, la più importante delle domande: quindi, perché farlo?
È indubbio il valore divulgativo, orientativo e promozionale delle tante realtà che parlano di libri: parlare di libri non fa mai male. Eppure un accumulo di recensioni potrebbe anche avere più senso se spalmato nel tempo, e di conseguenza se ogni nuova analisi rinnovasse l’oggetto dal punto di vista critico, comparativo, allargandone gli spazi interpretativi. Gettare nuove luci e tracciare nuove prospettive dilatando i tempi, forse, aiuterebbe anche ad attrarre un pubblico nuovo, più ampio.
Succede invece di assistere a un fiorire di commenti soprattutto a ridosso di ogni nuova uscita. Poi (diciamo dopo pochi mesi?) il silenzio quasi assoluto. Certo è che il mercato editoriale sia una pista su cui si corre velocissimo, la necessità è di restare al passo per non perdersi e per indirizzare la curiosità del pubblico. Ma un libro, qualsiasi sia, merita di farsi dominare dalle logiche bulimiche e da consumo istantaneo dei social e dell’informazione?
Insomma, in seguito a queste riflessioni si è deciso di parlare di libri di narrativa contemporanea italiana (con preferenza per le piccole e medie case editrici) solo a qualche mese dalla loro uscita, quando per i tempi editoriali sono ormai in età adulta. Non si tratta di recensire ma di raccontare il romanzo e il suo percorso dopo la sovraesposizione iniziale, nel tentativo di fare qualche riflessione più larga interpellando direttamente l’autore e la sua esperienza in materia di libri e comunicazione.
Lo scambio con Paolo Zardi è iniziato proprio parlando dei tempi editoriali attuali e del fatto che nei mesi passati la collana Altrove, per la quale L’invenzione è stato pubblicato agli inizi del settembre 2019, ha visto la propria fine.
«Ho sempre pensato che l’unità di misura della letteratura dovrebbe essere il secolo, un intervallo di tempo sufficientemente ampio per poter valutare il reale valore di un’opera. Il mercato editoriale, però, ha esigenze diverse e il continuo aumento dell’offerta di nuovi libri da parte delle case editrici obbliga tutta la filiera ad adottare ritmi elevatissimi. Per fare un esempio, solo la collana SIS della Mondadori pubblica un nuovo romanzo alla settimana; nei sette giorni successivi all’uscita si valutano le vendite e poi si decide se spingere ancora un po’ o passare al successivo. […] Nella piccola editoria le cose funzionano diversamente. Nel 2015 la NEO Edizioni pubblicò un solo romanzo, il mio XXI Secolo, e concentrò tutta la sua attenzione su quello. Per quella che è la mia esperienza, i ritmi diventano tanto più frenetici quanto maggiori sono le dimensioni della casa editrice, ma non si tratta, a mio parere, di una scelta ideologica: è una diretta conseguenza della dimensione abnorme dell’offerta, un aspetto sul quale non si può, e non si deve, intervenire».
I dati delle vendite de L’invenzione degli animali saranno disponibili a maggio, per questo Paolo non sa ancora se abbia avuto successo o meno sul mercato, e nemmeno se abbia incontrato i gusti del pubblico – se non per via di qualche feedback privato.
Dopo più di sette mesi dall’uscita, chiedo se abbia avuto qualche ripensamento in seguito, per capire se è tra quegli autori che dopo tempo non riescono a rileggersi per paura di non ritrovarsi.
«Se dovessi tornare indietro, forse cambierei qualche dettaglio del finale; ma per il resto, quando consegno un libro è perché penso di aver fatto tutto quello che dovevo e potevo fare. Il romanzo, tra l’altro, era stato condiviso, come impostazione generale, prima dell’inizio della scrittura, e questo ha bloccato sul nascere potenziali scelte sbagliate […]»
In pochi anni le strategie di promozione editoriale si sono adattate ai nuovi mezzi di comunicazione e ai loro linguaggi, social media in primis, portando la categoria libri ad essere tra quelle più suscettibili alle regole dell’influenza. In molti casi questi meccanismi mettono in risalto il valore di un romanzo come prodotto e non come creazione artistica. Il risultato spesso è un cortocircuito proporzionale (ed erroneo): + visibilità = + qualità.
Gli stessi mezzi permettono però una vicinanza all’autore e ai meccanismi che ne regolano la presenza artistica-digitale, a volte meno romantica di un immaginario ideale, più chiassosa, talvolta anche meno leale. Il “caso” di Zardi è interessante, slegato da una costruzione di un personaggio che crea influenza e dai meccanismi che reggono la baracca: ci mostra la sua vita, il suo essere ingegnere prima di uno scrittore, lontano da troppi clamori, senza seguire dinamiche di quartiere. Anche questa può essere strategia, ma senza dubbio più umana e terrena.
«Mi piace, ogni tanto, immaginare Franz Kafka che, dopo aver pubblicato La metamorfosi, riceve l’invito del suo editore ad aprire un account su Facebook per promuovere il suo lavoro: me lo vedo davanti al PC mentre cerca di capire cosa dovrebbe scrivere, sul proprio profilo, quale foto mettere, e come comunicare nel modo migliore che sta per iniziare un tour per le librerie di Praga al quale teme non parteciperà nessuno».
Questa frase mi ha fatto sorridere, e al tempo stesso mi ha rivelato come poche volte prima l’esistenza di un Kafka corporeo. Immagino anche i post che avrebbe condiviso – o forse no, non l’avrebbe fatto, per paura di aggravare le sue insicurezze.
«Il punto è che i social […] sono l’espressione di questo mondo e, con un meccanismo di feedback, ne stanno determinando caratteristiche importanti […] Un’amica mi diceva che un tempo se nella terza pagina del Corriere della Sera si parlava di un libro, il giorno dopo lo compravano in tremila; ora, non esiste più un punto di ingresso così forte, così dominante. […] È possibile che ci siano persone che leggono le recensioni e altre che scelgono cosa leggere su Instagram. Nessuno ha ancora trovato la formula per ottimizzare questo mix […]».
Paolo mi scrive del suo interesse verso quegli autori che non usano i social come mezzo promozionale, ma per esprimere il proprio punto di vista. Tra gli altri Stefano Sgambati, Simone Marcuzzi, Antonio G. Bortoluzzi, Giulio Mozzi, Demetrio Paolin.
«Forse nei libri non funziona tanto il messaggio in stile spot, ma un messaggio più ampio. Per quanto mi riguarda, cerco di produrre contenuti, sempre – su Twitter (luogo terribile, per molti versi), su Facebook e sul blog. Non credo di convincere qualcuno a comprare un mio libro se lo metto accanto a un vaso di fiori, o se pubblico la mia faccia in bianco e nero; non credo neppure di voler convincere nessuno a comprare i miei libri, a dire il vero – sicuramente non con questi mezzi: chi vorrebbe avere un lettore che sceglie i libri in questo modo? Mi rivolgo a persone come me, abbastanza impermeabili agli influencer».
I messaggi si moltiplicano, si frammentano, allargando così la massa di potenziali acquirenti (lettori “veri” o consumatori di contenuti?), il linguaggio diventa più “pop” e il livello di analisi si abbassa. Non esiste una maniera giusta o sbagliata, e non è una novità che vi sia un’eclissi dell’accademia, della critica alta: apparentemente incapace di rinnovare i metodi comunicativi, è sempre più oscurata da una molteplicità di contenuti testimoniali, quasi sempre tendenti al positivo. Se tutto è bene, fin dove può arrivare il loro valore?
«Capita anche a me di scrivere alcune recensioni, tutte caratterizzate dal fatto che contengono l’effetto che un libro ha prodotto su di me: non sono un critico letterario e non ho la pretesa di esserlo. Però sono convinto anch’io: le recensioni di adesso, salvo alcune eccezioni, hanno il semplice valore di testimonianza […]. Dal punto di vista di un autore, e ancor più dal punto di vista dell’editore, questi ritorni sono importanti, perché aiutano un potenziale lettore a farsi un’idea del mare magnum dell’offerta elefantiaca di questi anni; dal punto di vista letterario, probabilmente aggiungono poco a quello che sappiamo già. Non manca solo la critica letteraria: manca perfino l’idea che sarebbe utile che qualcuno ce l’avesse. Sarebbe interessante leggere una critica organica, una visione strutturata della letteratura contemporanea, un’analisi dell’evoluzione del romanzo in Italia negli ultimi vent’anni, ad esempio: esistono delle tendenze? Ci sono dei temi che ricorrono? Si stanno formando delle scuole, più o meno implicite? Se qualcuno lo sa, e lo sta dicendo, il suo messaggio non sta avendo la stessa visibilità, la stessa capacità di penetrazione, delle recensioni su base spontanea, per così dire».
Potremmo soffermarci ancora a riflettere e rivoltare questioni senza arrivare a un punto, che poi, in certi casi, forse è meglio non mettere. E invece, Paolo, come vedi i tuoi prossimi mesi?
«A gennaio ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo, la cui idea è emersa da un gruppetto di sei soggetti emersi nel corso degli ultimi anni. La partenza è stata velocissima, con ritmi davvero buoni; poi la clausura forzata, questa quarantena, mi ha bloccato. […] Ma non dispero: ho visto che, anche nel passato, a un certo punto l’esigenza di scrivere prevale su qualsiasi altra condizione. Nei prossimi sei mesi vorrei riuscire a finire questo progetto nel modo migliore possibile».
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