Più e Meno
di Stefano Zampieri
illustrazione di Michele Rota
Immaginiamo una particella piccolissima, di una piccolezza di fronte alla quale non c’è paragone possibile, più d’una punta di spillo, infinitamente di più, più ancora di quanto veramente si possa immaginare.
Fissiamo dunque di fronte a noi questa particella che non è quella giusta (quella giusta è, per l’appunto, molto molto più piccola), e chiamiamola Più. Ma non basta, ripetiamo l’operazione con un’altra particella in tutto simile alla prima, e chiamiamola Meno.
In verità la seconda non può essere completamente simile alla prima e non solo (ma già sarebbe abbastanza) perché risponde a un nome diverso, ma anche per una più essenziale differenza che, tuttavia, nel campo delle cose piccolissime, noi possiamo in tutta tranquillità ignorare senza per questo perdere nulla del ragionamento. Basti sapere che l’una non sta senza l’altra, che l’una non va dove va l’altra, ma si inseguono sempre, da lontano, senza toccarsi mai perché se si toccassero scoppierebbe il finimondo.
Dunque tutto prende avvio da una leggera pressione dell’indice su di un tasto. È da questo momento che Più e Meno cominciano uno strano gioco e d’inseguimenti.
Si ritrovano, tanto per cominciare, dentro un pezzetto di silicio (che è un sasso, uno stupido sasso), piccolo ma non piccolissimo, visibile perfino, e di qui, trasformati e ordinati sfilano lungo le postazioni luminose di uno schermo, secondo la semplice organizzazione di punti, di linee, e di curve che rappresenta, per noi tutti, la riconoscibile parvenza della parola. Ma questo non è ancora il viaggio, no, soltanto la preparazione di esso. Perché l’itinerario abbia veramente inizio è necessaria una strada. Ora, per delle particelle piccolissime come Più e Meno, la via ideale è un filo, un sottilissimo filo di rame. Lungo le intricate diramazioni della rete telefonica si possono fare incontri inaspettati e bellissimi. Come viaggiare in un paesaggio sconosciuto, e trovare a ogni angolo una sorpresa, una piazza, una casa, una voce. Lungo la rete telefonica ci si può muovere liberamente, senza bisogno di una carta geografica, senza doversi per forza orientare. Non c’è un Nord, non c’è un Sud, ci sono direzioni puramente ideali, astratte. Più e Meno lungo quel sottilissimo filo di rame si muovono come impazziti, giungono in mille posti, entrano in mille case, penetrano in altri cip di silicio (sassolini, ancora), si ordinano luminosamente sulla superficie di altri schermi, ricomponendosi nella familiare fisionomia di una parola.
Certo, se tutto questo movimento s’arrestasse qui non avremmo altro da dire. Perché non c’è dubbio che le particelle Più e Meno hanno questo d’originale, si agitano come impazzite, superano i chilometri come fossero niente, si proiettano come schegge di bomba in tutte le direzioni, poi si riordinano lì, ferme sullo schermo, e a quel punto potrebbero spegnersi, potrebbero cancellarsi. La semplice pressione di un dito è capace di annullarle così definitivamente da non farne restare nulla. Un nulla assoluto, una morte totale, senza possibilità di ripensamento. Nella maggior parte dei casi è proprio quel che succede. Un gran movimento per poi spegnersi in un niente, tanto rumore per nulla.
Ma non è sempre così. Accade talvolta che tra le infinite possibili destinazioni, ve ne sia una che non si spegne, che non cancella, che non annienta il segnale. Si potrebbe ragionare sul fatto che attraverso la diramazione planetaria d’una rete telefonica cercarsi e trovarsi sono verbi assai improbabili, ma bisogna entrare nell’ordine di idee che tutto quel movimento, quel reciproco inseguirsi, quel far capolino per un istante, quello strizzare l’occhio, non si realizzano secondo la logica semplice della realtà comune, nella quale le persone sono le loro parole e i loro gesti, ma secondo i principi della particolare costituzione di un universo parallelo al nostro, dove le persone sono soltanto i loro segnali, e in quelli vivono, e in quelli muoiono.
Così in un universo che non è quello vero, ma semplicemente gli somiglia, in un tempo che non è mai né presente né passato, perché manca di qualsiasi respiro, manca, paradossalmente, di ricordo alcuno, che non sia forse la pressione dell’indice su di un interruttore che spegne e cancella ogni cosa, in uno spazio che è planetario e insieme infinitesimo quanto l’irrappresentabile grandezza di due particelle, dunque secondo tutte queste coordinate ampiamente scoordinate, ci sono tracce di persone che immaginano d’incontrarsi. C’è un passaggio più complicato, impervio e pieno di rischi. Che va dallo schermo allo sguardo d’una persona, e dallo sguardo al cervello. Quel che avviene là dentro non lo sa nessuno, è certo però che le forme note di quel segnale mettono in agitazione altre particelle, non più grandi del Più e del Meno, e quell’agitazione crea bufere imprevedibili, talvolta disastrose.
Quel che si mette in movimento è un sacco d’ossa e di carne e di nervi; quel che fa dipende da una combinazione fra le infinite possibili di tutta quella materia leggera e pesante, una combinazione di cui ancora non si possiede la formula. È uno strano modo di parlare quello che avviene lungo un sottilissimo cavo di rame, attraverso le miscele un po’ oscure di un Più e di un Meno, dentro il sasso di un cip, sulla superficie luminosa di uno schermo. Strano perché le persone non ci sono. È un dialogo totalmente possibile ma non vero. E non soltanto per via della distanza, che si può sempre superare, ma proprio perché troppo sottile, tutto basato com’è su quelle particelle troppo piccole per poterle descrivere.
Certo ai due capi un corpo pesante e pensante deve pur esserci, ma nel dialogo si annulla, fa di sé una inesistenza, una cancellazione, un vuoto che solo apparentemente si riempie di quei tratti riconoscibili di parole. Sono parole che comunicano senza corpo, come se si potesse comunicare senza corpo, come se non fosse il corpo stesso a comunicare. Sono parole che mimano la presenza di corpi dopo averli soppressi e annientati. La cecità assoluta sono due volti che non esistono. L’uno di fronte all’altro, come due buchi neri nello spazio, sembrano attrarre la materia entro di sé, ma la consumano, la distruggono, la divorano, la riducono a segnale. Soltanto così la distanza assoluta diventa vicinanza, sembra contatto, ma è soltanto un’apparenza debolissima che la semplice pressione di un dito può cancellare.
Le scrissi: “Ti amo”.
Lei rispose: “Anch’io”.
Il resto accadde altrove.
***
Se ti va di leggere un altro racconto, ti consigliamo questo: La domenica sportiva di Pietro Pancamo.
Oppure puoi leggere uno dei nostri reportage narrativi:
L’autore di “Più e Meno”
Stefano Zampieri è un filosofo e scrittore veneziano. Ha pubblicato numerose opere di carattere saggistico, attualmente la sua ricerca si sviluppa attraverso la scrittura creativa orientata soprattutto nella direzione di una distopia critica: ha pubblicato il romanzo “Da un altro mondo” Calibano editore 2019, ed è in corso di stampa “Prigionieri della libertà” Robin Edizioni 2020. Un suo racconto ha vinto il primo Dystopian Contest 2020.
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