Trecentomila miliardi di caffè

di Martino Pinna
illustrazione di Michele Rota

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Pioveva, e per ripararmi mi sono rintanato dentro a un bar. Ho ordinato un caffè, ma il barista non mi ha risposto e mi ha dato le spalle, mettendosi a lavorare con le leve della macchina. Pensavo fosse un tipo di poche parole, che mi avesse sentito e che stesse preparando il mio caffè; invece, finito il lavoro alla macchina, si è voltato verso il bancone e ha servito una tazzina di caffè fumante a una signora al mio fianco. Pazienza, ho aspettato. Eppure mi pareva che avesse fatto un vago cenno di assenso quando gliel’ho detto, come dire: sì, ti ho sentito. Ma forse avevo visto male, oppure ho mal interpretato il suo sguardo. Forse non mi ha sentito, può essere. C’è da dire che, essendo l’ora di punta, può capitare che l’ordine di un cliente venga ignorato. Il barista a quell’ora era preso da tazzine, piattini, bicchieri, gente che entrava, usciva e salutava. C’era qualcuno che commentava il telegiornale, il barista rispondeva a monosillabi senza sollevare lo sguardo e si capiva che era concentrato sugli ordini, sulle sue cose… E poi avrà avuto i suoi pensieri, perché anche un barista ha la sua vita, ovviamente; però, ecco, non vorrei sembrare arrogante ma anche io ho la mia… e vorrei quel caffè. Allora ho provato a dirgli qualcosa, cioè volevo ricordargli del mio caffè, ma le parole non sono uscite. Ho provato più volte senza riuscire a ricordarglielo. Ogni volta che mi sembrava il momento giusto, che ci fosse l’allineamento ideale tra i nostri sguardi, lui si voltava altrove. Ho aperto la bocca più volte senza emettere nessun suono, come un pesce. C’è stato un momento in cui mi ha guardato: veloce, uno sguardo, fugace, ma c’è stato, e io non ho parlato nemmeno in quel caso.

Non sapevo che fare, ero appoggiato al bancone già da qualche minuto. Avrà pensato che avessi già consumato il caffè, perché c’era una tazzina vuota al mio fianco, quella della signora che nel frattempo era andata via. Non credo che il barista si ricordi di tutti; ripeto, all’ora di punta c’è molta confusione, ci può stare che si confonda. Io stesso ho pensato: forse questo caffè bevuto è effettivamente il mio… Ma no, cosa dico, non ho il sapore di caffè in bocca, dunque non l’ho ancora bevuto, era davvero quello della signora. Nel frattempo entrano ed escono altri clienti, alcuni si riconoscono e si salutano, altri commentano i fatti del giorno, in sottofondo sempre il telegiornale, si parla di attentati ed esplosioni, la porta che si apre e si chiude, l’acqua del rubinetto e i rumori di tazzine e della macchina del caffè.

La situazione stava diventando strana, lo ammetto, ero lì ormai da un po’ di tempo e non avevo bevuto nessun caffè. Ho cambiato posizione sullo sgabello un po’ di volte, fino a trovare quella più comoda. Dopo un paio d’ore ho allentato i lacci delle scarpe perché sentivo i piedi gonfi. Il barista si è avvicinato e per un attimo, di nuovo, mi è sembrato che i nostri sguardi si incrociassero, ma forse guardava oltre, o pensava ad altro, non saprei. Con il gomito sul bancone ho appoggiato la testa sul palmo della mano per riposare un po’ gli occhi. Mi sono addormentato. Non so quanto tempo sia passato, ma al mio risveglio era ormai sera. Il barista non c’era più, ora c’era una barista, una ragazza con la coda, molto veloce, molto professionale. Avrei potuto dire a lei che volevo un caffè, ma dopo una certa ora il caffè non lo bevo perché non mi fa dormire. Certo, ho pensato, ormai ho sonnecchiato qualche ora, avrò comunque problemi a prender sonno; ma questo non è un buon motivo per peggiorare le cose prendendo un caffè. Un signore con dei bei baffi e il cappello mi ha rivolto la parola, mi ha chiesto se poteva prendere qualcosa, non ho capito. Ero confuso, ancora un po’ stordito dal sonno, poi ho realizzato che si riferiva allo zucchero, che nel frattempo era finito chissà come vicino a me, forse mentre dormivo. O il bar si sarà inclinato e lo zucchero è lentamente scivolato sul bancone fino ad arrivare a me? Forse è passato molto più tempo di quello che pensavo e sono in atto variazioni nell’asse terrestre: mi pare che ne parlassero, al telegiornale. Comunque, naturalmente gli ho risposto di sì, che prendesse pure lo zucchero, e lui ha ringraziato e ha sorriso. Mi ha colpito molto il cappello, non saprei dire perché, ma l’avrei capito anni dopo. Mi sono stiracchiato un po’, niente di eccessivo, trovo volgare stiracchiarsi troppo in pubblico, ma la schiena mi doleva: lo sgabello del bancone non è il massimo della comodità, lo ammetto, ma so adattarmi. In un momento di calma la barista con la coda ha passato un panno sopra il bancone per pulirlo, e io, senza che lei mi dicesse nulla, ho alzato le braccia il tanto giusto perché passasse il panno. L’ha passato due volte, prima in avanti e poi indietro. Ho di nuovo appoggiato le braccia sul bancone e ho meditato di fare un altro pisolino, a quanto pare sonno chiama sonno. Ho sbadigliato e ho annusato l’aria che profumava di caffè, così inebriante, così forte. Ho preso un tovagliolo di carta dal bancone e con una penna che avevo nella tasca del giaccone ho iniziato a scrivere le mie memorie.
Era passato ormai un bel po’ di tempo, non saprei dire con precisione quanto. Il signore col cappello vedendomi scrivere si è incuriosito, mi ha chiesto se fossi un poeta. Io ho risposto che stavo scrivendo la lista della spesa e lui è scoppiato a ridere. Tipo simpatico. Poi gli ho detto la verità: sono anni che sono qua, mi è venuto in mente di scrivere le mie memorie, anzi guardi, le dico la verità, ho iniziato proprio scrivendo di lei, di quando mi ha chiesto di passarle lo zucchero. Era lusingato, ma anche un po’ sorpreso. Lo trova un episodio significativo? Mi ha chiesto. Ho dovuto riflettere sulla risposta. In effetti no, al bar è una cosa che capita spesso, che qualcuno ti chieda di passargli lo zucchero, o altri gesti di questo tipo. A colpirmi è stato il suo cappello, gli ho risposto. Lui era contento, evidentemente orgoglioso di questo cappello, che peraltro, almeno apparentemente non ha niente di particolare, è un banale cappello in feltro. Ha la tesa semirigida, non tanto larga. Un po’ antico, credo. La particolarità che probabilmente aveva destato la sua attenzione, mi ha detto lui, era l’infossatura centrale e il leggero rialzo delle tese. Mi ha raccontato alcuni fatti interessanti sul suo cappello e mi sono accorto di quanto poco ne sapessi, in generale, sull’argomento. Mentre lui parlava io prendevo appunti sui tovaglioli. Ora sto scrivendo di questo dialogo, che si sta mischiando con il nostro primo incontro, gli ho detto. Ah, spero di non aver creato confusione, ha aggiunto lui. No, assolutamente, continui pure. E mi ha spiegato che quel particolare cappello era conosciuto come Lobbia. Prende il nome da un deputato, tale Cristiano Lobbia, che nel 1869 venne aggredito all’uscita del Parlamento. Gli diedero tre pugnalate al petto e una botta in testa, che infossò il cappello. I cappellai fiorentini approfittarono del fatto, che all’epoca destò comprensibilmente grande scandalo e indignazione, per pubblicizzare capelli di questo tipo. Cappelli che la gente iniziò a chiamare “alla Lobbia”, appunto. Ho scritto tutto quello che mi ha raccontato e l’ho ringraziato. Oh, via, sono sciocchezze, racconti da vecchi, ha replicato. Poi ha aggiunto: ma mi dica piuttosto, io la vedo qua da anni, seduto al bancone. Quanto sarà passato dalla prima volta che ci siamo visti, quando le chiesi di passarmi lo zucchero? Si ricorda? Era una domanda retorica, nessuno dei due lo sapeva esattamente. Ebbene, ha continuato, io mi sono sempre chiesto come mai un giovane come lei non torni a casa. Mi perdoni se non mi faccio gli affari miei: ma non ha una moglie, una fidanzata? Non me lo ricordo più, gli ho risposto. La capisco, eccome se la capisco: anche io inizio ad avere vuoti di memoria. Si ricorda quella ragazza giovane, quella con la coda, che faceva la barista qua tempo fa? Beh, non riesco a ricordarmi il suo nome. La salutavo ogni giorno, era molto gentile, molto veloce. E molto professionale, ho aggiunto io. Esatto, ha confermato lui, era molto professionale. Una ragazza simpatica, dolce, eppure non ricordo più il suo nome. E prima c’era un altro barista, ho continuato io, non so se lo ricorda. Ah, per carità, ora non mi metta in difficoltà! Le ho spiegato che ho vuoti di memoria. Però, ora che mi ci fa pensare… Sì, ricordo: in effetti prima della ragazza c’era un altro barista. A proposito, lei prende un caffè? Sono rimasto in silenzio per un attimo, o forse un po’ di più. Forse quel silenzio è durato troppo a lungo: il signore col cappello, quando fuori si era fatto buio e dentro avevano acceso le luci, era andato via. Seppi tempo dopo che era morto e mi è dispiaciuto. Ho conosciuto il figlio un giorno, al bancone, che chiedeva un caffè: ho capito subito che era lui perché aveva la stessa voce e lo stesso cappello. Quello è un cappello alla Lobbia, ho detto io. Lui rimase sorpreso, non capita tutti i giorni che la gente riconosca quel tipo di cappello, ma gli ho spiegato subito che avevo conosciuto suo padre. Molto incuriosito, volle sapere di cosa avevamo parlato. Tra il mio mucchio di tovaglioli ho cercato quello che parlava di lui, di suo padre, e gliel’ho fatto leggere. Veniva molto spesso in questo bar, mi ha detto, finché ha potuto camminare.  Purtroppo a causa di un un brutto male che l’ha a poco a poco consumato gli ultimi mesi li ha vissuti  immobilizzato a letto. Ogni tanto diceva che gli mancava il caffè, pensi. Però non poteva berlo. Il barista, un ragazzo cinese molto magro, ha chiesto al figlio dell’uomo con il cappello cosa prendeva e lui ha risposto: un caffè macchiato. Il barista ha preso una tazzina e si è girato verso la macchina. Lei non prende niente? Mi ha chiesto il figlio dell’uomo con il cappello. Oh, no, col caffè ho smesso. Tempo fa sono entrato qua per prendermi un caffè, era una giornata piovosa, mi pare. Ma poi quel caffè non l’ho mai bevuto e i giorni sono passati; ho conosciuto alcune persone, come suo padre, mi sono slacciato le scarpe, e ogni tanto mi stiracchio, osservo, ascolto, ma ho perso l’abitudine del caffè. Nemmeno decaffeinato? Mi ha chiesto il ragazzo. Questa era un’ipotesi che in effetti non avevo mai preso in considerazione. Ma no, a pensarci bene no, nemmeno decaffeinato. Ogni tanto dormo, così, sul bancone, anche quando il bar chiude. Vengo risvegliato dal cigolare della serranda, dalle voci dei primi clienti, dall’odore delle brioche calde e del caffè, dal telegiornale, dall’acqua del rubinetto, insomma mi accontento di questo. A lei manca suo padre? Andavate d’accordo? Scusi, forse sono domande troppo personali. No, affatto, mi ha tranquillizzato il ragazzo, rispondo volentieri. Mio padre mi manca, certo. Non ci vedevamo spesso, ma ho passato tutto il tempo possibile con lui, in quegli ultimi mesi di malattia. Andavamo d’accordo quando stavamo in silenzio, trovo sia un bel modo di andare d’accordo, non crede? Io prendevo appunti, scrivevo ogni sua frase, poi il ragazzo mi ha salutato cordialmente ed è andato via. L’ho rivisto qualche volta. Non era più un ragazzo. Si era fatto crescere i baffi come quelli di suo padre e non ha mai rinunciato al cappello alla Lobbia. Un giorno, mentre chiedeva al barista cinese un caffè, mi sono accorto che era diventato tale e quale al padre. Noi due ci siamo già visti, gli ho detto. Lui non ha capito. Allora ho aggiunto: quel giorno che mi ha chiesto di passarle lo zucchero e mi ha raccontato del deputato Cristiano Lobbia, non ricorda? Lui ha sorriso e ha detto che ultimamente aveva problemi di memoria. A chi lo dice! Ho detto io, è per questo che annoto tutto, e ho indicato il mucchio di tovaglioli sul bancone. Ah, allora non sono liste della spesa, ha ribadito in tono scherzoso. Un brav’uomo. Poco tempo dopo venni a sapere della sua morte e mi è dispiaciuto. Lo diceva una signora anziana al barista cinese, che sembrava mostrare indifferenza; forse perché lo vedeva come un cliente qualunque, cosa che in effetti era. O forse no, chissà. Come dicevo, anche i baristi hanno i loro pensieri, e non possiamo sapere quali siano. Mentre pensavo questo, e lo scrivevo sui tovaglioli, si è seduta al mio fianco una ragazza con i capelli rossi. Ha preso un caffè e un bicchiere d’acqua. Oh, mi scusi! Ha esclamato, perché aveva rovesciato l’acqua sui miei tovaglioli, bagnandoli un po’. Le ho detto di non preoccuparsi, non è niente di importante, tranquilla. Cosa sta scrivendo? Mi ha chiesto. La lista della spesa, ho risposto. Ha sorriso e ha aggiunto: sembra qualcosa di più lungo della lista della spesa. Ha ragione, in effetti sto descrivendo questa scena, lei che entra, si appoggia al bancone del bar, ordina un caffè e un bicchiere d’acqua, beve il caffè, un sorso d’acqua, e appoggiando il bicchiere accidentalmente lo rovescia e bagna i miei tovaglioli, e dice: Oh, mi scusi! E poi mi chiede cosa sto scrivendo. Ma non si preoccupi, davvero, è questo bancone che a volte sembra inclinarsi: credo c’entri una variazione dell’asse di rotazione terrestre; ma dico per dire, non sono un esperto. La ragazza è apparsa molto divertita dalla mia spiegazione. Io mi sono stiracchiato con discrezione, pensavo che la conversazione fosse finita là. Ma la ragazza ha ripreso a parlare e ha osservato: ho notato che lei è spesso qua. Spesso? Direi sempre, ho risposto io. Sono entrato qua un giorno di pioggia e ho chiesto un caffè ma… Perché non si propone come barista? Mi ha chiesto la ragazza con i capelli rossi. Sono rimasto un attimo in silenzio, non mi aspettavo quella strana domanda. Non volendo far durare troppo il silenzio ho risposto: barista, io? Non so, non credo di essere adatto, dubito che verrei assunto. Ma come, credo sappia tutto sul come si usa la macchina del caffè, ha risposto lei, e poi non ha visto? Cercano un nuovo barista. Ha indicato dietro di me, verso la porta del bar. Erano anni che non guardavo in quella direzione, l’ultima volta era stata una mattina che nevicava, tutti commentavano quanto fosse bella la neve e mi ero voltato per qualche secondo a guardare i fiocchi che scendevano giù. Per il resto del tempo fisso sempre davanti a me, verso la macchina del caffè, oppure di lato, per parlare con i clienti al bancone. Ma osservando, ora notai sulla vetrina un cartello. C’è scritto cercasi barista, mi ha detto la ragazza. Il cinese si vuole licenziare per aprire un suo bar. È la sua occasione! Ero confuso, ho continuato a scrivere sui tovaglioli, così, per fare chiarezza con me stesso. Allora? Ha chiesto la ragazza. Ho sollevato la penna: l’inchiostro era finito. Sembra che l’inchiostro sia finito, le ho detto. Bene, questo forse è un segno, ha dichiarato lei, alludendo al fatto che avrei dovuto propormi come barista. Passare dall’altra parte del bancone, insomma. Non saprei, le ho detto, sono anni che non mi alzo da questo sgabello, non sono sicuro di potermi reggere in piedi, le dico la verità. Un barista deve stare quasi tutto il giorno in piedi, muoversi velocemente. Inoltre ci sono i miei tovaglioli, tutti i miei scritti… E cosa ci vuole fare con quelli? Mi ha chiesto la ragazza con i capelli rossi. Non lo so, ora poi è finito l’inchiostro. Se vuole ho una penna, mi ha detto tirando fuori un astuccio dalla sua borsa. Mi ha mostrato la penna, una Bic nera molto simile alla mia. Ora le fanno diverse, quella che avevo io era un modello vecchio. Potrebbe continuare a scrivere di quello che succede mentre lavora, ma allo stesso tempo diventerebbe un barista, ha insistito lei. Ho preso la penna in mano e ho scritto su un tovagliolo gli ultimi avvenimenti, cioè del cartello sulla vetrina, cercasi barista, della conversazione con la ragazza con i capelli rossi e dell’opportunità di propormi come barista. Ho provato a muovere una gamba. Poi ho provato a muovere l’altra. Potrei provare ad alzarmi in piedi, ho detto alla ragazza. Sì, ha risposto lei, potrebbe provare. Con puntualità ho scritto sul tovagliolo: la ragazza ha detto sì, potrebbe provare, e poi mi sono alzato in piedi. Il bancone mi è apparso diverso, e pensare che mi ero allontanato di pochi centimetri. Eppure sembrava tutto un altro mondo. Il barista cinese è passato velocemente davanti a me, ha preso il bicchiere vuoto della ragazza e la tazzina, ha asciugato il bancone con un colpo di panno ed è andato altrove, senza fare caso a me. Mi sembra che riesca a reggersi in piedi, ha detto la ragazza. Sì, sembra anche a me. Mi sono chinato e ho stretto i lacci delle scarpe. Erano anni che non le vedevo. I miei vestiti sono ormai  fuori moda, credo. Ma no, ha detto la ragazza, vanno benissimo. E poi per fare il barista dovrà indossare una camicia bianca e un grembiule nero. Questo è vero, ho detto io, ma le scarpe e i pantaloni? La ragazza con i capelli rossi ha risposto che da dietro al bancone nessuno avrebbe visto né i pantaloni né le scarpe, e che comunque andavano bene anche quelle. Dovrò farmi la barba, sistemarmi i capelli… C’è il bagno qua a fianco, ed è sempre pulito, ha assicurato  la ragazza. Voltai lo sguardo verso sinistra, anche da quella parte non mi rivolgevo da tempo, e vidi la porta del bagno a pochi metri da me. Scrissi su un tovagliolo: ringraziai la ragazza per l’aiuto che mi aveva dato, le promisi che mi sarei proposto come barista e che forse, chissà, la prossima volta mi avrebbe visto dall’altra parte del bancone. La ringrazio, ho detto alla ragazza, grazie davvero per l’aiuto che mi ha dato, penso che mi proporrò come barista. Magari, chissà, la prossima volta mi vedrà dall’altra parte dal bancone. Lei ha sorriso, è andata a pagare alla cassa, che credo si trovi da qualche parte oltre la macchina del caffè, sulla destra. Ha salutato ed è uscita. Ho provato a camminare da fermo, a muovere un po’ le gambe. Dovevo svegliarmi un po’ da quel torpore. Mi sono stancato molto in fretta però, troppi anni fermo; allora mi sono seduto sullo sgabello per riposarmi e mi sono addormentato. Poi ho sentito qualcosa di caldo sul braccio, Oh mi scusi! Ha detto la signora con i capelli rossi. L’ho riconosciuta subito. E’ invecchiata bene, una bellissima signora. Quanto tempo, le ho detto io. Non ha accettato quel lavoro, mi ha detto lei, ma senza un tono né di rimprovero né di delusione. Purtroppo no, mi sono addormentato e sono rimasto da questa parte dal bancone e, le dico la verità, ormai sono vecchio, non credo di essere più adatto a una professione di questo tipo. Il cartello c’è ancora? Lei si è girata verso la porta: No, hanno assunto un altro barista tempo fa. Il suo caffè, ha detto il nuovo barista alla signora, poggiando il piattino con la tazzina del caffè sul bancone. Non l’ho ben focalizzato, mi è sembrato un giovane con i capelli lunghi raccolti con una matita, ma l’ho visto con la coda dell’occhio, tenendo la testa bassa. La signora con i capelli rossi mi ha chiesto se ormai avevo deciso di restare là; ho risposto che non lo sapevo. Poi mi ha chiesto se avevo ancora la sua Bic e ho detto di Sì: ma non l’ho ancora usata, perché dormivo. Ho iniziato ora, funziona bene. Mentre parlavo segnavo tutto nei tovaglioli. Lei come sta? Si è sposata, ha figli? Ho chiesto. Perdoni la franchezza, ma sa com’è, quando si diventa vecchi si fanno domande così, senza troppi fronzoli! Ah no, si figuri, ha detto lei. Ero già sposata quando ci siamo incontrati la prima volta, mio marito è morto qualche anno fa. Ho due figlie con le quali vado d’accordo. La mia salute, per il momento, è buona. Mi fa molto piacere, dico io. Sa, a volte… Una deflagrazione interrompe la frase: il botto mi rende sordo per qualche minuto. Non ero più sullo sgabello, mi trovavo per terra, ricoperto di macerie, vetro e polvere. Si sentivano delle sirene in lontananza e  grida di persone, non capivo se dei superstiti all’interno del bar o di chi all’esterno aveva assistito all’esplosione. Fissavo il volto sfigurato della signora con i capelli rossi: aveva gli occhi aperti, un frammento del bancone conficcato nella testa e dalla bocca sgorgava lento un rivolo di sangue. Io respiravo lentamente. Poco dopo ho visto il suo corpo trascinato via da uomini con  stivali di gomma: i soccorritori. C’era molta confusione, com’è comprensibile che sia dopo un evento simile. Ho allungato la mano per cercare un tovagliolo. Nell’esplosione i miei fogli erano finiti sparpagliati un po’ ovunque, ma vicino alla mia gamba destra ce n’erano di intonsi. Finalmente, per la prima volta, ho usato la penna che mi diede la ragazza con i capelli rossi e ho scritto quanto accaduto: l’esplosione, il volto della signora sfigurato da un frammento del bancone, il sangue, i soccorritori, io che allungavo  la mano a cercare un tovagliolo per scrivere. Chissà se qualcuno è sopravvissuto, mi sono chiesto. Ho scoperto poco dopo che nel bar erano morti tutti tranne io.
E’ incredibile! Mi ha detto il ragazzo seduto al mio fianco mentre sorseggiava un tè. Lei non beve caffè, ho osservato. No, non lo bevo… Ma mi dica, questo è successo quando io ero piccolo, me lo ricordo perché abito qua vicino e il botto dell’esplosione si era sentito fino a casa mia. A mia madre per poco non venne un colpo. Sì, ho detto io, è stato un botto molto forte, infatti ora non ci sento più tanto bene. Poi sai, scusa se ti do del tu, ma si figuri, faccia pure, alla mia età credo che sarei diventato sordo comunque. E poi cos’è successo? E poi… E poi il bar è rimasto per qualche tempo abbandonato, non saprei dirti quanto. Naturalmente è stata qua la polizia, hanno raccolto delle prove. Io non ho intralciato in alcun modo le indagini. Lo sgabello aveva resistito all’esplosione, dunque lentamente mi sono seduto sopra, proprio dove mi vedi ora. Qualche tempo dopo hanno ricostruito il bar, nuova gestione, nuovo bancone, tutto nuovo. L’hanno letteralmente costruito intorno a me e sotto di me. Vuole un caffè? Mi chiede il ragazzo. Oh no, alla mia età non fa bene. E i tovaglioli li ha ritrovati? No, sono andati perduti quasi tutti, sono riuscito a recuperare solo quelli che si trovavano vicino al mio corpo, tra le macerie. Ma in un bar i tovaglioli non mancano mai, dunque, come vedi, ho continuato a prendere appunti. Ora sta scrivendo questo? Mi ha chiesto il ragazzo. Sì, ora ad esempio ho scritto: ora sta scrivendo questo? Mi ha chiesto il ragazzo. E così via. E’ così che faccio. Divertente, ha sorriso il ragazzo. E’ sicuro di non volere nulla, nemmeno un decaffeinato? Quello non dovrebbe essere un problema per la sua salute. Ho sorriso anch’io, perché il decaffeinato mi riportava a vecchi ricordi, ma ho cortesemente declinato l’offerta. Ho chiuso un po’ gli occhi e mi sono accorto che qualcuno aveva spento il televisore. Non si sentiva più il telegiornale, né l’acciottolio di piatti, tazze e bicchieri, né il vociare dei clienti. Non era notte e non era un giorno di chiusura: erano semplicemente scomparsi tutti. Il bancone era molto impolverato, sembrava che il barista non passasse il panno da tempo. Non c’era luce. La macchina del caffè era spenta. Con la coda dell’occhio ho visto qualcosa strisciare dal basso, sulla destra, come una grossa medusa,  arrampicarsi sullo sgabello a fianco al mio. Lentamente si è avvicinata al mio braccio destro. Evidentemente ho chiuso gli occhi per molto tempo, ho pensato. Mi sentivo molto stanco, avrei voluto stiracchiarmi, ma non sapevo se quel gesto potesse essere mal interpretato da quella creatura. Sono rimasto immobile. L’animale ha avanzato fino a trovarsi di fronte a me: dietro di sé lasciava una scia sul bancone impolverato, come le lumache. Non capivo se avesse degli occhi, perché tenevo la testa bassa e cercavo di non guardarlo direttamente, ma comunque sentivo di essere osservato. Poi ha proseguito oltre, fino al mucchio dei miei tovaglioli, e ha iniziato a mangiarli. A quel punto mi sono lentamente voltato verso la porta esterna; l’ultima volta che l’avevo fatto era stata per guardare il cartello cercasi barista, tanto tempo prima, e la volta prima per vedere la neve. Ho così scoperto che l’animale non era solo: tutto il pavimento del bar era ricoperto da creature identiche che si muovevano lentamente. La vetrina era completamente offuscata da uno strato di polvere e in parte ricoperta da piante rampicanti. Sentivo il rumore dei miei tovaglioli risucchiati dall’animale, evidentemente privo di denti per masticare. Mi sono voltato di nuovo verso la macchina del caffè e ho visto riflesso il mio volto, un po’ deformato e opaco a causa della polvere… Sono invecchiato, ma il bar sembra essere invecchiato molto più di me. Non c’è bisogno che mi alzi, né che esca da quella porta, per capire che sono rimasto da solo: non c’è più nessun altro, tranne questi strani animali, e forse altri come loro. Dei miei tovaglioli non è rimasto nulla, solo una macchia bavosa che questa creatura secerne quando si nutre. Non sembra pericolosa, ma nel dubbio sono rimasto immobile. L’animale scivola giù dal bancone, ignorandomi, e dai rumori che sento credo cerchi altro cibo all’interno del bar. In tasca ho un tovagliolo pulito, lo tiro fuori, prendo la Bic nera e scrivo: l’animale scivola giù dal bancone, ignorandomi, e dai rumori credo cerchi altro cibo all’interno del bar. Mi fermo, alzo la penna dal tovagliolo, la tengo un attimo sospesa e guardo la macchina del caffè. Poi scrivo: credo che sia arrivato il momento di smettere.

***

L’autore
Martino Pinna è nato a Oristano nel 1984. Dal 2001 è fondatore e autore di Trascendentale e dal 2012 è il curatore di Sardegna Abbandonata. Oltre a numerosi racconti, sceneggiature e reportage, ha realizzato cortometraggi e documentari. Il suo sito è www.batisfera.it/martinopinna

 

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